Gli spaghetti alla bolognese: verità storica versus leggenda
di Giancarlo Roversi
7' di lettura
«Che le tagliatelle rappresentino uno dei piatti tradizionali bolognesi più famosi è risaputo da tutti. Ma allora gli “spaghetti alla bolognese” che vengono strombazzati nei menù di tutto il mondo cosa c'entrano? Hanno diritto o no di cittadinanza sotto le Due Torri?
Un gruppo di amici buongustai petroniani ha creato la “Balla degli spaghetti alla bolognese”. Come affermano i promotori si tratta soprattutto di una gustosa provocazione perché, a loro dire, questo piatto non ha nulla a che vedere con Bologna dove la pasta asciutta che tiene da sempre banco sono le tagliatelle e non gli spaghetti seppure accompagnati all'estero e qualche volta anche in Italia dallo specificativo “alla bolognese”.
Un'identificazione, questa, che starebbe solo a indicare che hanno un condimento di carne, sia che si tratti del classico ragù felsineo oppure di qualche più o meno astruso intruglio come gran parte di quelli in voga in America. Il che è vero ma è anche falso contemporaneamente. Vediamo perché.
Anzitutto non bisogna cadere nell'errore superficiale di pensare che a Bologna in tutte le case lungo i secoli si siano mangiate ogni giorno le tagliatelle al ragù. Anche perché questo voleva dire che tutte le mattine le brave arzdoure petroniane avrebbero dovuto procurarsi uova fresche e mettersi al tagliere a tirare una bella sfoglia col matterello. E in una città che rima della peste del 1630 ha sfiorato i 60 mila abitanti è assurdo pensare che ci nutrisse di tagliatelle o comunque di pasta di produzione domestica. Però, come specificano i bandi comunali del Sei-settecento rivolti ai “pastaroli” e per informazione a tutta la collettività, esistevano, almeno fin dalla seconda metà del 500, negozi che vendevano pasta “bianca e pasta gialla”, fresca e secca (tra cui i “vermicelli” ossia il termine usato per identificare gli spaghetti fino al 1819 quando a Napoli vennero ribattezzati spaghetti). E quando un alimento veniva regolato ogni anno col calmiere significa che si trattava di un prodotto di larghissimo consumo in città, specie nei ceti più popolari. E significa anche che si trattava di pasta bolognese fabbricata “all'uso di Genova e di Puglia”, avvertendo così i cittadini che non proveniva più, come avvenuto dal XIV al XVI secolo da questi luoghi, la cui importazione si era ridotta a piccole quantità riservate ai ceti più abbienti e pertanto non regolamentata dai calmieri. Come non rientrava nei calmieri la mortadella dato che si trattava di un prodotto di lusso.
Molti di quelli che, a digiuno della documentazione storica e amanti delle leggende, sostengono acriticamente il contrario si trovano certamente più a loro agio con un rassicurante piatto di tagliatelle che con la storia alimentare (che, non dimentichiamolo, va fatta sui documenti d'archivio e non sul sentito dire, o su presunte quanto erronee leggende). Infatti ignorano che i vermicelli/spaghetti, conditi in vari modi, compreso il ragù, sono sempre stati di largo consumo nei secoli passati a Bologna, anzi documentati fin dal ‘500.
Anche perché in una città molto popolata era impensabile che le tagliatelle nelle case dei ricchi e meno che meno in quelle dei poveri, scorressero come un fiume in piena, accanto alle paste tradizionali come le lasagne, i tortellini e i tortelloni, piatti destinati non all'alimentazione quotidiana ma a quelle delle feste. A tenere banco a Bologna, almeno fin dal secolo XVI, erano infatti non solo le tagliatelle, riservate però al pranzo domenicale e a quello dei giorni festivi, ma pure gli spaghetti, chiamati, lo ripetiamo ancora una volta più propriamente «vermicelli» (in dialetto varmizi o marmizi).
In un bando emanato il 9 aprile 1575 per fissare i prezzi calmierati a favore dei pellegrini diretti a Roma per l'Anno Santo, è menzionata la “minestra di tagliatelli o simile”. E' bene avvertire subito che non si fa riferimento a un piatto brodoso perché da sempre a Bologna col termine “minestra” viene indicata, non solo la pasta in brodo come sarebbe appropriato, ma anche qualunque tipologia di pasta asciutta.
Null'altro si sa sul condimento di queste tagliatelle cinquecentesche di locanda, sicuramente ricavate da sfoglie tirate a suon di matterello e condite con burro e parmigiano grattugiato analogamente a quanto avveniva per le lasagne come documenta un codice manoscritto trecentesco conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna. Oppure erano insaporite con un condimento tipico, fin dall'epoca medievale consumato come pietanza a se stante, ossia un gustoso intingolo in cui inzuppare il pane. Era composto di carne di manzo, carne di maiale, lardo, pancetta e archest, ossia le rigaglie di pollo ed è restato in auge nelle nostre campagne fino alla metà dell'800. Era il ragù cosiddetto in bianco ossia senza la conserva di pomodoro.
Per trovare quest'ultima, che rende così caratteristico il ragù alla bolognese di oggi, bisogna attendere il definitivo ingresso nell'alimentazione del pomodoro, rimasto dopo la scoperta dell'America in penombra per tre secoli relegato soprattutto negli orti botanici come curiosità vegetale. Veniva consumato solo da pochi amanti dei sapori nuovi, anche perché una credenza popolare lo riteneva velenoso (il che è vero, ma solo nelle foglie che, come tutte le solanacee, contengono una sostanza tossica, la solanina). Il primo a inserire nel suo ricettario “Lo scalco alla moderna” una “salsa di pomodoro alla spagnola” fu alla fine del' 700 fu il cuoco Antonio Latini, attivo a Napoli, consigliandola per accompagnare i bolliti. Ma si tratta di un caso sporadico. Per vedere l'entrata in scena definitiva del pomodoro bisogna attendere la seconda metà del secolo XIX.
Ma veniamo agli spaghetti alla bolognese che fin dal secolo XVI figuravano spesso sulle tavole dei petroniani. Però attenzione né nei vecchi ricettari bolognesi né in quelli italiani non sono mai nominati gli spaghetti per il semplice fatto che con questo nome, non lo ripeteremo mai abbastanza, non esistevano. Esistevano invece i loro antenati, i loro parenti più stretti i “vermicelli”. Gli spaghetti vengono menzionati per la prima volta in un ricettario napoletano del 1819.
Ma cosa si mangiava a Bologna nel ‘500 e anche nei secoli precedenti? Tanta pasta secca. E non come sostengono alcuni noti chef di oggi. Ed è proprio il forte consumo di pasta asciutta a spingere i governanti cittadini a favorire la nascita nella seconda metà del ‘500 del primo pastificio petroniano.
Infatti il 20 novembre 1586 il Senato di Bologna decise di accogliere la supplica di Giovanni Dall'Aglio che chiedeva il privilegio di produrre e vendere in esclusiva pasta per un periodo di dieci anni.
Nell'avanzare la sua richiesta il Dall'Aglio affermava di avere riflettuto attentamente sui vantaggi che sarebbero derivati alla città dalla possibilità di disporre di pasta e soprattutto di vermicellos (ecco gli spaghetti di una volta sotto mentite spoglie!!), ossia gli spaghetti, lassagnas, macarones. Con la produzione industriale si sarebbe anche ottenuto un risparmio di farina rispetto ai sistemi artigianali e domestici. Ma soprattutto avrebbe subito una forte diminuzione l'importazione di pasta da Genova e dalla Puglia cui andavano le preferenze dei bolognesi.
Per l'impianto produttivo lo stesso imprenditore era disposto a procurarsi «ferreis instrumentis ad conficiendas diversas qualitatis impastationes» (ossia strumenti di metallo per confezionare le diverse qualità di pasta), destinando a tale attività una schiera di abili operai.
La concessione per la produzione esclusiva di pasta “all'uso di Genova e di Puglia”, quindi imitando i due principali tipi di pasta importati a Bologna, era sottoposta a due precise condizioni. Anzitutto l'obbligo di utilizzare il “farina di frumento acciarino”, ossia di grano duro, e poi quello di fabbricare la pasta a prezzi inferiori rispetto a quella forestiera. La concessione venne rinnovata anche nel secolo XVIII con l'obbligo per i rivenditori di mantenere ben distinti i prezzi fra la pasta locale e quella importata dalla Liguria e dalla Puglia che costava più del doppio e che pertanto era destinata ai ceti più abbienti.
La dimostrazione che a Bologna già durante il ‘600 e il ‘700 si consumassero grosse quantità di pasta secca, in particolare vermicelli, ossia spaghetti, è fornita dai bandi legatizi emanati ogni anno dal Senato per calmierare i prezzi. Bandi che riguardavano solo la pasta di produzione locale e non quella forestiera che aveva un prezzo di mercato libero e soddisfaceva le esigenze gustative di chi poteva permetterselo.
In questo panorama alimentare non mancavano certamente le tagliatelle, ma non destinate al consumo quotidiano, bensì, salvo rare eccezioni, a quelli di più alto status sociale.
I trattati culinari dal secolo XVI al XIX confermano l'uso di vermicelli / spaghetti anche sotto le Due Torri. Molto in voga sono sempre stati quelli al tonno, specialmente a partire dalla metà dell'800 quando il francese Appert, inventò i contenitori a tenuta stagna che permisero di offrirlo in commercio sott'olio mentre in precedenza si usava la tonnina, ossia filetti di tonno essiccato e salato che bisognava sciacquare nell'acqua per dissalarli. Comunque non è mai mancato chi preferiva insaporirli col ragù, come testimoniano diverse ricette contenute in tanti ricettari manoscritti casalinghi come quelle inviati una ventina d'anni fa alla rubrica “Le ricette nel cassetto” curata da chi scrive per “Il Resto del Carlino”.
Lo confermano anche le liste dei generi alimentari di consumo di tre benemerite istituzioni cittadine create nella seconda metà dell'800, che vedono protagonisti il Comune, la Chiesa e istituzioni filantropiche come la Società Operaia. Si tratta delle “Cucine economiche” e delle “Cucine popolari”, che garantiscono il minimo vitale, anzi molto di più, alle classi meno protette, quelle dei lavoratori stagionali, specie durante i periodi in cui la manovalanza era priva di occupazione come si verificava in inverno per i muratori e il bracciantato agricolo. Fra le vivande preparate figurano infatti molto spesso gli spaghetti conditi col ragù.
Per saperne di più rinvio al saggio “Alimentazione e consumi nella Bologna dell'800”, di Giancarlo Roversi, pubblicato qualche anno fa nel quarto volume della “Storia ufficiale di Bologna promossa dal Comune tramite l'Istituto per la storia di Bologna.
In conclusione, i vermicelli / spaghetti nella loro versione alla bolognese al ragù, quello in bianco in auge fino all'inizio dell'800 prima che vi entrasse la salsa di pomodoro, hanno pieno diritto di cittadinanza nella cucina petroniana e anche nella sua proiezione internazionale, accanto alle nobilissime tagliatelle e non in concorrenza con esse».
Giancarlo Roversi è giornalista e scrittore, di libri, saggi e e riviste dedicati alla ristorazione e alla buona cucina
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