l’epistolario

Gramsci, l’umanità di un politico integrale

Le «Lettere dal carcere», riproposte nei Millenni Einaudi con dodici testi inediti, sono una testimonianza di dignità dell’uomo «che ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali»

di Emilio Gentile

Antonio Gramsci (seduto accanto a un insegnante) al ginnasio di Santu Lussurgiu, oggi in provincia di Oristano, 1905-1908 (particolare). - Foto Archivio Cesare Colombo e Fondazione Gramsci

6' di lettura

Giunto all’età che concede qualche ricordo personale, ne racconto uno associato alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Risale all’agosto 1965. Il libro, appena uscito in una nuova edizione, mi fu regalato da Giuseppe Prezzolini, quando andai a trovarlo per la prima volta a Vietri sul Mare, a seguito di una lettera che gli avevo scritto due mesi prima, mentre ero sotto esame per la maturità.

Mi disse: «Certamente conosce Gramsci. Le sue lettere degli anni in cui era in prigione rivelano un carattere veramente eccezionale, rarissimo in Italia». Di Gramsci sapevo che era stato il fondatore del partito comunista, ed era morto dopo lunghi anni di carcere sotto il regime fascista, lasciando importanti quaderni di note. Ma non avevo letto nulla di lui. «Legga questo libro», aggiunse Prezzolini, «sono sicuro che appassionerà un giovane come lei». E mi raccontò di aver conosciuto Gramsci nel 1921, quando fu da lui invitato a parlare agli operai di Torino. Ebbero ancora un colloquio nel 1924, ma le loro esistenze ebbero destini opposti: Gramsci fu incarcerato dal fascismo e condannato a oltre venti anni; Prezzolini, antifascista ma amico di Mussolini, si astenne dal prendere parte nella guerra fra fascisti e antifascisti, e nel 1925 si esiliò a Parigi come impiegato alla Società della Nazioni.

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Prezzolini aggiunse: «Gramsci mi ha giudicato severamente nelle note scritte in carcere, ma ingiustamente. Se avesse vinto il suo partito, forse avrei fatto una brutta fine. Tuttavia, il giudizio sulla persona non è mutato: era un uomo straordinario, e le lettere lo confermano». Poi, prima di salutarci, mi donò un altro libro: «Visto che studierà filosofia, può esserle utile un po’ di ironia sui filosofi». Era un libretto rosso, pubblicato nel 1958 in esemplare numerato. Il titolo Filosofi in libertà era ricamato in oro con un disegno infantile. Dedalus, l’autore, faceva una satira in versi di alcuni filosofi, dai greci ai contemporanei, accompagnata da caricature di filosofi con didascalie ironiche. Per esempio, Nietzsche, alla stazione, chiede: «un biglietto di andata e eterno ritorno». Solo più tardi seppi che Dedalus era Umberto Eco, a ventisei anni. [Conservo ancora il libretto rosso, e rileggendolo in tempi di reclusione senza reato, imposta dalla pandemia, ho immaginato la satira di Dedalus sulla recente Eco-latria del «fascismo eterno»: «L’asserzione nebulosa/non compete alla mia prosa/e la lascio in fede mia/alla libera poesia/che incantar sa i fresconi/con le pseudo-affermazioni»].

Ma torniamo alle lettere di Gramsci, vittima del fascismo storico. Cominciai a leggerle in treno, e seguitai fino alla fine. Mi fecero una forte impressione. Da allora, ho riletto più volte questa testimonianza di dignità, che è stata anche un medicamento efficace durante qualche detenzione ospedaliera, come è stata una benefica compagnia nella recente reclusione pandemica. Ignoravo però che nello stesso periodo era in stampa da Einaudi una nuova edizione delle lettere, con dodici inediti gramsciani, e un denso apparato di note. La scelta di ripubblicare il libro nella collezione “I millenni”, ideata da Cesare Pavese nel 1947, è appropriata: infatti, l’epistolario è un vero «classico della letteratura», secondo la definizione del curatore Francesco Giasi, «da leggere pagina dopo pagina, come un’opera letteraria […] capace di raccontare una storia drammatica – con l’esito più tragico – come solo i capolavori della letteratura sanno fare».

Un classico, aggiungiamo, che si apprezza maggiormente per la qualità della scrittura, considerando che il prigioniero doveva «scrivere di botto, nel poco tempo in cui mi vengono lasciati il calamaio e la penna» (19 marzo 1927).

Politico integrale, il Gramsci delle lettere è soprattutto un essere umano, che si mostra quale è, pur nel riserbo che si imponeva nello scrivere le sue «lettere “pubbliche”», come le definiva, perché aperte agli occhi del censore. Per apprezzare il loro valore si deve però prescindere dalle polemiche, trattate in studi recenti, sui difficili rapporti fra il prigioniero, i dirigenti del partito a Mosca, i coinquilini comunisti in carcere, le trattative fra Roma e Mosca per uno scambio di prigionieri (cfr. Angelo Rossi, Giuseppe Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi 2007).

Gramsci detestava di essere venerato come un martire nelle manifestazioni organizzate in Europa per la sua scarcerazione. Al fratello Carlo scriveva il 12 settembre 1927: «Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo». Così come fu per Antonio una preoccupazione costante il pensiero che la madre considerasse la sua prigionia «una terribile disgrazia alquanto misteriosa nelle sue concatenazioni di causa ed effetti; per me è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per chissà quanto tempo ancora. Io sono rimasto preso, così come durante la guerra si poteva cadere prigionieri, sapendo che questo poteva avvenire e che poteva avvenire anche di peggio», scriveva alla sorella Teresina il 20 febbraio 1928.

E il 12 marzo, alla mamma: «Il carcere è una bruttissima cosa; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria». Di nuovo, il 10 maggio, con parole di affettuosa fermezza che mostrano la tempra morale dell’uomo, esortava la mamma affinché «comprendesse bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini».

In carcere, l’uomo Gramsci fu coerente con l’umanismo integrale, storicista ed etico, che aveva animato il militante marxista. «La nostra religione – proclamava nell’agosto del 1916 – ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l’uomo e la sua volontà e la sua attività». Anche se il prigioniero detestava d’essere considerato un martire, nel 1918 era convinto che la storia «ha bisogno di martiri e di sconfitti, come di trionfatori: si nutre del sangue degli eroi e del sacrificio anonimo delle moltitudini».

Da politico in lotta, Gramsci aveva una visione palingenetica e terribile della rivoluzione proletaria, come implacabile guerra civile per espellere «col ferro e col fuoco» la borghesia. Da sconfitto in carcere, mutò la concezione rivoluzionaria, ma conservò «tale convinzione profonda che l’uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli – da non disperare mai più e non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo» (19 dicembre 1929).

Il prigioniero continuò a dimostrare la dignità dell’uomo nella perpetua lotta della storia. Nel 1935, mentre era ricoverato a Roma, dopo l’autorizzazione a lasciare il carcere di Turi per le gravi condizione di salute, scrisse al figlio Delio: «Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è cosi?»

Dall’inizio della prigionia, Gramsci aveva deciso di impegnare la mente a «far qualcosa “für ewig”» [per l’eternità] come scrisse a Tania il 19 marzo 1927. Quel «qualcosa» sono i quaderni di note, diventati, pur nella frammentaria composizione di appunti, un classico del pensiero. Ma anche senza i quaderni, le Lettere dal carcere sono, per se stesse, «qualcosa “für ewig”».

Lettere dal carcere
Antonio Gramsci
A cura di Francesco Giasi
Edizione critica realizzata in collaborazione con la Fondazione Gramsci,
con un album fotografico
Einaudi, Torino, pagg. 1376, € 90 - In libreria dal 13 ottobre

Riproduzione riservata ©

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