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Granada e l’europa, che fatica a decidere

Per due giorni, Granada è stata il centro dell’Europa. Giovedì 5 ottobre si sono riuniti 44 capi di Stato e di governo che costituiscono l’informale Comunità politica europea (Cpe), venerdì 6 ottobre si sono riuniti 27 capi di Stato e di governo per una riunione informale del Consiglio europeo dell’Unione europea (Ue). In entrambe le riunioni, la discussione è stata ricca, ma i risultati poveri.

di Sergio Fabbrini

(REUTERS)

4' di lettura

Per due giorni, Granada è stata il centro dell’Europa. Giovedì 5 ottobre si sono riuniti 44 capi di Stato e di governo che costituiscono l’informale Comunità politica europea (Cpe), venerdì 6 ottobre si sono riuniti 27 capi di Stato e di governo per una riunione informale del Consiglio europeo dell’Unione europea (Ue). In entrambe le riunioni, la discussione è stata ricca, ma i risultati poveri. La Cpe non ha i denti per mordere, il Consiglio europeo non può usarli perché bloccato dai veti interni. Così, i problemi vengono rinviati. Ha scritto il Guardian, «they kicked the can down the road», ovvero quei leader si sono limitati a calciare la lattina giù per la strada. Vediamo perché. La Cpe è un’organizzazione informale dei leader degli Stati europei, con l’eccezione della Russia e Bielorussia, con lo scopo di favorire la sicurezza collettiva (esterna e interna) attraverso il dialogo tra di loro. Il dialogo, tuttavia, non basta. Neppure, come si è visto a Granada, per la sicurezza interna.

La contesa sul Nagorno-Karabakh, tra Azerbaigian e l’Armenia (entrambe partecipanti alla Cpe), era stata risolta pochi giorni prima con la forza e non con il dialogo. La contesa territoriale nel nord del Kossovo tra quest’ultimo e la Serbia (entrambi partecipanti alla Cpe) è tenuta sotto controllo dagli americani e non già dagli europei. I conflitti si risolvono o si tengono sotto controllo attraverso una capacità di deterrenza garantita da una credibile forza militare. Il soft power è necessario ma non è sufficiente per promuovere la sicurezza, se non è accompagnato anche dall’hard power. Ed è qui che casca l’asino: non solamente la Cpe non dispone di una forza di deterrenza, ma non vi è al suo interno un’entità che possa credibilmente minacciarne l’uso. Collettivamente, ne è priva l’Ue, dipendendo interamente da Washington per la sua stessa sicurezza. Singolarmente, il Regno Unito e la Francia vorrebbero esercitare quel ruolo, ma non dispongono della legittimità per farlo, considerati Paesi coloniali in un’epoca anticoloniale. Con il risultato che, mentre noi ci alimentiamo con “La pace perpetua” (1795) di Immanuel Kant, qualcun altro, oltre Atlantico, paga il conto del ristorante per noi. Così, la lattina continua a essere calciata giù per la strada. Il Consiglio europeo informale era stato riunito per discutere l’agenda strategica dell’Ue 2024-2029, agenda che dovrà essere resa pubblica prima delle elezioni per il Parlamento europeo del giugno 2024. Anche qui, una stranezza. Per quale motivo l’agenda strategica verrà presentata prima delle elezioni parlamentari, quasi che queste ultime non avessero alcun peso sul quinquennio successivo? Sembra che ci sia un solo potere che conta in Europa, quello dei governi nazionali. Non solamente ciò è democraticamente ingiustificabile, ma quel potere non è neppure in grado di prendere decisioni collettive. A Granada, ad esempio, si è discusso principalmente di politica migratoria. Eppure, il Consiglio europeo non è giunto a una conclusione condivisa su quest’ultima per via del veto dei governi della Polonia e dell’Ungheria (sostenuti anche dai governi di Repubblica Ceca, Slovacchia ed Austria). Perché il veto? Perché, alla fine di settembre, il Consiglio dei ministri Giustizia e Affari interni aveva approvato, a maggioranza qualificata come previsto dai Trattati, il nuovo Patto su migrazioni e asilo (sotto forma di una proposta di regolamento). Quel Patto, che introduce importanti innovazioni nella politica migratoria comune, stabilisce che, in “situazioni di crisi” in uno Stato membro (per eccesso dei migranti che vi giungono), venga redistribuita (per solidarietà) una quota di essi negli altri Stati membri dell’Ue. È questa clausola che ha fatto scattare l’opposizione dei Paesi di Visegrad (e dell’Austria). Per Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki, il nuovo Patto deciso a maggioranza qualificata costituisce «uno stupro legale a danno dei loro Paesi». Di qui, la loro minaccia a usare il veto per bloccare il funzionamento del Consiglio europeo (dove si delibera all’unanimità). Come, appunto, è avvenuto a Granada. Il Consiglio europeo, infatti, non ha potuto inserire nelle sue conclusioni l’accordo sul nuovo Patto. Peraltro, quelle conclusioni avevano espunto i riferimenti alla redistribuzione dei migranti, ponendo invece l’accento sulla lotta ai trafficanti, sugli accordi da promuovere con i Paesi africani dai quali partono i migranti, sulla difesa collettiva dei confini esterni dell’Ue. La conseguenza è stata che la politica migratoria ha costituito l’oggetto di una Dichiarazione personale del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Così, anche qui, la lattina continua a essere calciata giù per la strada. Insomma, la Cpe non può basarsi solamente sull’informalità e il dialogo per promuovere la sicurezza del continente. Essa deve strutturarsi come una vera e propria organizzazione distinta dall’Ue, con un gruppo di Stati disponibili a dare vita a una difesa comune così da esercitare la necessaria deterrenza. Il Consiglio europeo non può rivendicare il ruolo di esecutivo collegiale dell’Ue, quando le sue deliberazioni consensuali possono essere bloccate anche da un singolo Paese. Più che un esecutivo collegiale esso è divenuto una vetrina delle vanità, con ogni primo ministro che, alla fine delle riunioni e di fronte ai media del proprio Paese, celebra le vittorie e i successi conseguiti, come se avesse partecipato a una battaglia e non già a una riunione. Calciando la lattina giù per la strada non si garantisce la sicurezza e la stabilità del continente.

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