Gravi sofferenze fisiche e psichiche provocate alla fidanzata? Scatta il reato di tortura
Quando la violenza del compagno, geloso in modo patologico, va oltre la soglia prevista per i maltrattamenti è contestabile la tortura privata
di Patrizia Maciocchi
2' di lettura
Chiusa in casa, picchiata e costretta a subire rapporti sessuali, marchiata a fuoco, considerata un oggetto di proprietà privata. Un quadro che induce la Cassazione (sentenza 32380) a confermare nei confronti del “compagno” della vittima la condanna per il reato di tortura privata, in concorso con la violenza sessuale e i maltrattamenti. Una possibilità che scatta quando il trattamento riservato ad un essere umano supera una soglia limite di gravità. La Suprema corte respinge il ricorso dell’uomo, secondo il quale mancavano nel suo caso, gli elementi costitutivi del reato previsto dal primo comma dell’articolo 613-bis del Codice penale, introdotto in Italia nel 2017. E in particolare, ad avviso della difesa, non c’era la qualifica giuridica soggettiva dell’agente.
Il dominio assoluto sulla vittima
Ma i giudici di legittimità ricordano che il reato in questione è a geometria variabile, perché comprende la tortura privata e quella pubblica, e solo in quest’ultima pesa la qualifica del soggetto attivo come pubblico ufficiale, mentre nella prima non ha nessuna rilevanza la qualifica di chi agisce, se non limitatamente al rapporto di affidamento. Elemento che, nello specifico, esisteva essendo il “carnefice” fidanzato della vittima, mosso anche da una gelosia patologica. Gli ermellini descrivono le condizioni crudeli nelle quali la donna era costretta a vivere. Le acute sofferenze fisiche, provocate da una violenza brutale, avevano avuto come risultato un trauma psichico. Per i giudice c’era anche la minorata difesa, la capacità di reazione della ragazza era, infatti, ostacolata dalle particolari condizioni personali e ambientali che facilitavano, al contrario, il dominio criminale. Una signoria e un controllo assoluto sulla compagna ridotta ad «una cosa oggetto di accanimento».
La lesione della dignità umana
La Suprema corte ricorda che la sofferenza del corpo fisica o psichica, inflitta ad una persona, è tuttavia solo un aspetto del reato. Il contenuto preciso «dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili». Per i giudici ciascuno dei singoli atti, dalle percosse alla violenza privata, «deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece per i maltrattamenti». Circostanza che nel caso esaminato si era verificata.
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