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Questa volta non è solo l’ennesima polemica sollevata da un presidente americano poco incline al linguaggio diplomatico internazionale. Dietro la crisi tra Stati Uniti e Danimarca si nasconde una guerra strategica su chi controllerà le future rotte dell'Artico e metterà le mani su grandi giacimenti di materie prime. Una battaglia in cui compare lo spettro della Cina, decisa ad estendere la sua influenza.
Groenlandia al centro della crisi Danimarca/Usa
Le notizie sulla remota Groenlandia non godono spesso il favore dei media internazionali. A meno che un presidente “eclettico” come Donald Trump annunci un improbabile acquisto dell’isola più grande al mondo etichettandolo come grande affare immobiliare. La Groenlandia è dal 2009 uno Stato federato. Al contrario della Danimarca, di cui era una colonia fino al 1953, non fa parte dell’Unione europea. Per quanto dunque goda di una forte autonomia, sulla politica estera e sulla sicurezza resta sotto la giurisdizione danese.
Dopo aver confermato di persona le sue intenzioni, e dopo aver ottenuto il rifiuto secco da parte delle autorità danesi - «La Groenlandia non è in vendita», aveva ribattuto la premier danese Mette Frederiksen -Trump ha annullato la visita organizzata il 2-3 settembre proprio in Danimarca. Una ripicca a cui la premier danese Mette Frederiksen ha risposto con garbo e fermezza; dicendosi «delusa e sorpresa» dalla decisione di Trump, precisando tuttavia che «l’invito per una più forte cooperazione strategica con gli Usa nell'Artico è ancora aperto». Dal canto suo Trump ha reagito con il suo linguaggio colorito.
ANALISI / Perché la Groenlandia fa gola a Trump (e non solo)
La battaglia strategica tra Cina e Usa nell’artico
Come poteva Trump pensare di acquistare un territorio sovrano così esteso, con annessa la popolazione indigena? Che cosa si nasconde dietro una simile provocazione? Perché questa terra gelida, coperta per l’80% da ghiacci, senza infrastrutture , con appena 55mila abitanti dovrebbe essere così attraente?
Sono ormai diversi anni che è in corso una battaglia su chi riuscirà ad estendere la sua influenza sui territori dell'Artico. Anche perché il progressivo scioglimento dei ghiacci sta rendendo meno impervi questi territori.
La posta in palio è altissima. Grande risorse di materie prime, tra cui uranio e le richiestissime terre rare (oltre ad uno dei mari più pescosi del mondo), una rotta commerciale più rapida (grazie al ritiro dei ghiacci), una posizione militare strategica di altissimo valore, a ridosso di Europa e Stati Uniti.
Aeroporti made in China tra i ghiacci
Torniamo indietro di due anni, al novembre del 2017. Il primo ministro della regione autonoma con la più bassa densità al mondo, Kim Kielsen, volava alla volta di Pechino per intrattenere colloqui riservati con dirigenti di altissimo livello delle più importanti banche cinesi, tra cui la China development bank e la Export Import Bank of China. Il premier groenlandese era consapevole che la Groenlandia, il 12esimo territorio al mondo per estensione, era forse quello con meno infrastrutture.
D'altronde il solo collegamento tra le diverse cittadine , costruite perlopiù su isolotti, sono una serie di piccoli velivoli ed elicotteri. Strade non ce ne sono. Risorse minerarie estremamente preziose invece sì. soprattutto quelle terre rare che non sembrano mai bastare mai al mercato digitale, di cui la Cina ha quasi il monopolio produttivo. Agli occhi del premier groenlandese tutto ciò rappresentava una grande opportunità di riscatto per un territorio povero, che vive di pesca e aiuti economici, con una disoccupazione molto alta ma senza praticamente welfare.
Ecco che, l’anno seguente, il colosso delle costruzioni, la Chinese Communication Construction Company (CCCC), esce allo scoperto e offre di realizzare i grandi progetti di espansione dei piccoli aeroporti in Illullisat e nella capitale Nuuk, e la costruzione di un aeroporto nuovo in Qaqortoq. Non appena la CCCC viene selezionato tra i potenziali appaltatori, scende subito in campo il Governo danese. Offrendo sul piatto 700 milioni di corone danesi e un prestito di ulteriori 450 milioni di corone finalizzato a finanziare gli aeroporti. Ed ecco che, pochi mesi fa, lo scorso giugno, la CCCC ritira la propria offerta per i progetti sugli aeroporti groenlandesi. La spiegazione apparsa sui media locali è davvero poco convincente: gli ingegneri cinesi avrebbero avuto grandi difficoltà nell’ottenere i visti da parte del Governo danese.
Usa: fuori la Cina dall'artico
Sia i danesi, sia soprattutto gli americani avevano visto l’offerta cinese per la costruzione degli aeroporti groenlandesi come una tangibile e potenzialmente sgradita penetrazione nel loro “giardino di casa”. La Casa Bianca non aveva nascosto le sue preoccupazioni. Temeva che potesse avverarsi uno scenario già visto in Africa. Vale a dire che qualora il Governo groenlandese, povero e dipendente dagli aiuti (che siano danesi o altro), avesse mancato di ripagare un prestito cinese , dopo alcuni mancati pagamenti Pechino avrebbe anche potuto assumere il controllo di infrastrutture strategiche in un’isola in cui gli Stati Uniti, grazie a un trattato con la Danimarca, hanno un’importante base militare , la Thule Air Base, quella più a nord di tutte, a 1.100 km dal circolo polare
Cominciarono così, divenendo frequenti, le visite di delegazioni danesi e americane per dissuadere i governanti groenlandesi a coinvolgere la Cina nei progetti infrastrutturali.
La Polar Silk Road
Quasi a voler ufficializzare le sue ambizioni, nel 2018, Pechino si definiva ufficialmente “a near artic” power. Un'affermazione un poco forzata, considerando che Pechino dista almeno 3mila chilometri dal circolo polare artico.
Già nel 2016 il Governo cinese provò ad acquistare una base navale abbandonata in Groenlandia. All’ultimo il Governo di Copenaghen lo impedì.
In Groenlandia oggi operano già due compagnie cinesi in partnership con compagnie locali per sviluppare un progetto di estrazione dell’uranio e di terre rare e un altro progetto in partnership con una compagnia australiana per lo sviluppo di una miniera di ferro e zinco. Le quote delle compagnie cinesi sarebbero cresciute sensibilmente negli ultimi tre anni.
grazie anche allo scioglimento dei ghiacci, Pechino è sempre più interessata a quella che è già definita Polar silk Road (o Ice silk road). La rotta polare è già percorsa dalla flotta commerciale cinese. E il fatto che quest'anno Pechino abbia inaugurato un nuovo e grande rompi ghiaccio, lo Snow Dragon 2, suona come un monito alle autorità americane: il Dragone non ha alcuna intenzione di rinunciare alle sue ambizioni sull'Artico.
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