sostenibilità

Gucci in vetta alla classifica di Fashion Revolution per attenzione alle persone e all’ambiente

Per il secondo anno consecutivo la maison ha punteggio più alto tra i brand di alta gamma nel Fashion Transparency Index, che analizza 250 aziende della moda e del lusso

di Giulia Crivelli

3' di lettura

Dalle 200 aziende prese in esame nel 2019 si è passati a 250, ma Gucci resta al primo posto tra i marchi del lusso nel Fashion Transparency Index, classifica (il termine però è riduttivo, date le variabili prese in considerazione) stilata da Fashion Revolution, organizzazione con sede a Londra che si occupa di sostenibilità e di come misurarla nei settori della moda e del lusso.

Il Fashion Transparency Index del 2019 (in inglese)

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I criteri seguiti per compilare l’Index (in inglese)

Gli obiettivi raggiunti da Gucci
Il Fashion Transparency Index fotografa, letteralmente, la trasparenza tra i più grandi 250 marchi di moda e retailer nel mondo. Nel caso di Gucci (maison di punta del gruppo Kering) Fashion Revolution ha certificato l’impegno di integrare la sostenibilità sociale e ambientale in tutte le attività nella supply chain. Gucci è al primo posto per l’alta gamma e primo tra le altre maison di Kering, con il 48% degli indicatori che compongono l’Index “positivi”, percentuale salita di otto punti rispetto al 40% del 2019. Gli indicatori sono 220 e riguardano moltissimi temi sociali e ambientali, tra i quali: welfare degli animali, salvaguardia e attenzione alla biodiversità, utilizzo di prodotti chimici, auditing della filiera, condizioni di lavoro nei vari Paesi in cui un marchio è presente o produce, attenzione al clima, politiche di genere, libertà di espressione e/o associazione all’interno dell’azienda, regole sul riciclo e riutilizzo, regole per gli acquisti di materie prime e molto, molto altro ancora.

Performance «perfetta» sugli impegni presenti e futuri
Gucci è l’unico marchio a raggiungere il 100% nella sezione Policy and Commitments, che indica le politiche annunciate e condivise su vari temi e che esamina i modi in cui un’azienda ha fatto seguire agli annunci azioni concrete.

Esempi delle iniziative di Gucci
Sul grande tema delle emissioni, la maison sostiene i progetti REDD+ per la compensazione delle emissioni residue; l’iniziativa Gucci Scrap-Less invece cerca di minimizzare gli scarti della lavorazione della pelle e di riutilizzare tutto quello che resta dopo aver “ritagliato” le parti che servono per un certo prodotto. Ci sono poi progetti sociali, come I was a Sari, portato avanti in India dove Gucci fornisce training di formazione sulla tecnica del ricamo per aiutare le donne indiane che ne fanno parte ad acquisire una professionalità e l’indipendenza economica (foto in alto).

Il recente impegno per la biodiversità a fianco dell’Onu
All’inizio di febbraio Gucci aveva annunciato di essersi unita al Lion’s Share Fund , un’iniziativa guidata dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) di raccolta fondi a sostegno della tutela degli animali selvatici e della biodiversità, attiva a livello globale. Il fondo mira a raccogliere oltre 100 milioni di dollari l'anno nei prossimi cinque anni per svolgere azioni di tutela e salvaguardia oltre alla creazione di zone protette per la fauna selvatica e Gucci è stato il primo brand del lusso ad aderire all'iniziativa

Fashion Revolution in Italia
Nel nostro Paese c’è anche l’inziativa di Fashion Revolution Italy , che invita tutti, fino al 26 aprile, a indossare un indumento al contrario, scattare una foto e postarla sui social chiedendo ai brand “Chi ha fatto i miei vestiti?” con gli hashtag #WhoMadeMyClothes #FashRev.

L’opinione e la filosofia della fondatrice di Fashion Revolution
«Quando tutto nell’industria della moda è focalizzato sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono persi – spiega Carry Somers, co-fondatrice di Fashion Revolution –. Abbiamo deciso di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa. L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai vestiti che indossiamo. Non sappiamo più chi sono le persone che fanno i nostri vestiti, quindi è facile far finta di non vedere e come risultato milioni di persone stanno soffrendo, perfino morendo.» Il riferimento è alla tragedia accaduta il 24 aprile del 2013 in Bangladesh: 1.133 persone morirono e molte altre rimasero ferite quando il complesso produttivo di Rana Plaza, a Dhaka, crollò e si scoprì poi che al suo interno lavoravano molte persone addette alla confezioni di abiti di marchi occidentali.

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