Guerra tra i virologi. «Grave come un’influenza». «No, molto di più»
«Le cifre effettive non hanno niente a che vedere con l'influenza (i casi gravi finora registrati sono circa lo 0,003% del totale)», attacca Roberto Burioni
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Nel giro di un fine settimana l’Italia è finita terza al mondo per numero di casi dopo Cina e Corea del Sud. I contagi confermati volano col passare delle ore e si inseguono misure da quarantena in un’atmosfera generale di crescente apprensione. Nell’universo degli esperti si è consumata una vera e propria disputa sulla gravità del fenomeno che ha largheggiato sui social, complice anche il clamore per i primi decessi.
Burioni versus Gismondo
«A me sembra una follia. Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale. Non è così», ha scritto nella mattinata di domenica 23 sulla sua pagina Facebook Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia clinica all'ospedale Sacco di Milano in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus. Aggiungendo in seguito: «Leggete! Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!».
Una presa di posizione contro cui si è scagliato a più riprese Roberto Burioni, medico, accademico e divulgatore scientifico, attaccando apertamente chi «chi dà informazioni completamente sbagliate. Leggete i numeri». Per Burioni «non si possono trattare i cittadini come bambini di cinque anni. Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal coronavirus sarebbe poco più di un'influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero». Le cifre effettive « non hanno niente a che vedere con l'influenza (i casi gravi finora registrati sono circa lo 0,003% del totale). Questo ci impone di non omettere nessuno sforzo per tentare di contenere il contagio. Niente panico, ma niente bugie».
La complicanza più sensibile
Come spiegato da Giovanni Maga, virologo dell'istituto di Genetica Molecolare del Cnr, l'infezione dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi causa sintomi lievi e moderati nella stragrande maggioranza del totale. Ma «nel 10-15% - spiega il ricercatore del Cnr - può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza». Non sempre però, perché viene calcolato anche che « il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva». Il rischio di gravi complicanze aumenta con l'età, e le persone sopra 65 anni o con patologie preesistenti o immunodepresse sono ovviamente più a rischio, così come lo sarebbero per l'influenza.
La maggiore insidiosità del coronavirus per Burioni sta nella «brutta tendenza di scendere giù in profondità nel nostro apparato respiratorio» dove «va a disturbare la parte delicata dei polmoni che ossigena il nostro sangue. Questa malattia ha una caratteristica che la rende insidiosa: in genere un paziente ne infetta 2,2 ma ci sono degli individui, chiamati super emettitori, che ne possono contagiare 10, 20, 30».
Capua: abbiamo diagnosticato più di altri
Secondo Ilaria Capua, virologa a capo del One Health Center of Excellence della University of Florida, «l'Italia sta vivendo una situazione più critica perchè sta cercando i casi più attivamente di altri». A suo giudizio quella in atto è «una sindrome simil-influenzale causata da coronavirus» che potrebbe durare «fino a primavera inoltrata o prima dell'estate. Avremo a che fare con questo virus per un po' di tempo», avverte, «ma usiamo tutti il cervello ed evitiamo che girino notizie stupide che spaventano le persone più fragili». È molto probabile che il virus circolasse già prima che venissero alla luce i numerosi contagi del week-end nero. Per Capua diversi Paesi europei hanno casi di coronavirus che verranno diagnosticati nei prossimi giorni. «Si chiarirà anche questo aspetto, così come l'effettiva estensione del contagio in Italia».
Galli: l’evenienza più sfortunata
Alla domanda sulla ampiezza dei casi Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all'Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell'Ospedale Sacco risponde, in un’intervista, che «da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile». E cioè «l' innescarsi di un'epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015.
Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato». Questo tipo di «infezioni sono veicolate più facilmente nei locali chiusi e per contatti relativamente ravvicinati, sotto i due metri di distanza».
Per approfondire:
● Coronavirus, perché l'Italia ha più contagi degli altri paesi europei?
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