Hamastan e Fatahland, le due Palestine rivali
Fatah era accusata di corruzione e sperpero. Il movimento islamista guadagnava consensi aiutando i poveri e seminando integralismo
di Roberto Bongiorni
4' di lettura
La sera del 3 gennaio del 2002 un uomo sui cinquant’anni bussò alla casa di Khaled, nel campo profughi di Jabalya. Portava una lunga barba, indosso un qames marrone. Infastidito dalla presenza di un giornalista occidentale, prese in disparte Khaled per cinque minuti e poi se ne andò così come era venuto, discretamente.
Sapeva che il figlio più piccolo di Khaled soffriva di una severa forma di asma. Era venuto per consigliargli un bravo medico. Dal momento che era al corrente delle sue difficoltà economiche, non doveva pagar nulla, nemmeno i farmaci, raccontò poi Khaled, un piccolo commerciante di 48 anni che aveva dovuto chiudere il suo negozio. L’uomo tornò un’altra sera. Informò Khaled che c’era una madrasa (una scuola islamica) che gli altri suoi quattro figli potevano frequentare liberamente, il materiale scolastico era gratuito, così come le divise. In cambio fu chiesto a Khaled di frequentare la loro moschea e le riunioni serali, dove abili oratori predicavano la condotta di un buon musulmano ed il suo dovere alla Jihad contro Israele.
La tela di Hamas
Pioveva a Gaza in quei giorni. Due ore più tardi, nel quartiere residenziali di Gaza City, le gomme di una grande Mercedes nera scivolavano sul vialetto privato in marmo che conduceva ad una casa di tre piani di un lusso sfacciato e pacchiano. Apparteneva a uno dei funzionari di Fatah, il partito di maggioranza guidato dall’allora presidente dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat, di ispirazione laica. Khaled non era un fervente religioso. Ma al pari di molti suoi vicini era frustrato per la sua condizione. La corruzione dei funzionari di Fatah aveva inghiottito gran parte dei fondi che Europa e Stati Uniti inviavano per alleviare le sofferenze dei palestinesi. A Gaza mancava di tutto, i servizi essenziali, le medicine, i mezzi pubblici. Ma non i ristoranti di lusso, dove gli onorevoli di Fatah, con i loro completi di foggia occidentale pasteggiavano, alcuni bevendo vino francese. Lontano dai loro occhi, Hamas tesseva la sua tela portando avanti un welfare islamico volto a consolidare il consenso. Grazie a un’efficiente rete sociale, che poteva contare su medici, farmacie, doposcuola e perfino uffici di collocamento, forniva i servizi in cambio della partecipazione attiva alla sua “formazione”.
Le elezioni politiche del 2006...
Quattro anni dopo arrivò il grande momento. Le elezioni politiche del gennaio 2006, seguite alla morte per avvelenamento di Arafat, colsero di sorpresa il mondo. Aveva vinto Hamas (nel 1996 aveva boicottato il voto), conquistando, 76 seggi su 132. Fatah, Israele e Stati Uniti rifiutarono di accettare i risultati di un’elezione che gli osservatori avevano definito regolare. Per Israele fu uno shock. Ricordava bene gli attentati kamikaze di Hamas, degli anni 90 e della seconda Intidafa. Eppure fu proprio Israele ad aver finanziato pochi anni prima Hamas in funzione anti-Arafat. Gli abitanti di Gaza festeggiarono. Il nuovo premier Haniyeh era uno di loro, aveva sempre vissuto in un campo profughi. Come buona parte dei vertici di questo movimento islamico, nato da una costola della Fratellanza musulmana egiziana. Hamas chiese a Fatah di far parte del Governo di tutti i palestinesi. Fatah decise di non riconoscere la vittoria di Hamas.
... E la svolta del 2007
Nel 2007 arrivò la svolta. Hamas decise di farla finita con Fatah. In pochi giorni si consumò una brutale guerra civile. I funzionari di Fatah furono torturati, gettati dalle finestre, giustiziati sulle strade. Altri rimasero, a costo di non creare problemi. Hamas era divenuta il padrone incontrastato di Gaza.
I territori palestinesi si spaccarono in due. “Fatah Land”, la Cisgiordania governata dal partito di Yasser Arafat. E “Hamastan”, la Striscia di Gaza, in mano al movimento islamico nemico di Israele. Due Parlamenti, due primi ministri, due Amministrazioni rivali. Hamas aveva ora gioco facile per rafforzare la sua ideologia. Concentrò gli sforzi sull’apparato militare e sulle giovani generazioni. Il controllo delle menti più malleabili, in un territorio dove la metà degli abitanti è minorenne, si rivelò una strategia vincente per rafforzare il consenso.
Passarono gli anni, difficili, Hamas cominciava a mostrare il suo vero volto. Quello di un regime intollerante al dissenso. Che imponeva la sue leggi e soffocava le piccole libertà a cui erano comunque abituati i palestinesi. Non si poteva nemmeno fare il bagno a torso nudo. Le unità di Hamas segnalavano chi disertava la preghiera nella Moschea. Negli eventi pubblici, dove i bambini erano vestiti con la divisa militare, il nemico veniva sistematicamente disumanizzato. L’isolamento di Gaza, e l’embargo israeliano, non permettevano di comprendere che la realtà poteva essere un’altra.
Per Israele questo scisma tornava utile. Il divide et impera si prestava bene a far deragliare la Road Map. Gerusalemme decise allora di avviare una collaborazione sul fronte della sicurezza con Fatah in chiave anti Hamas. La gerarchia di Abu Mazen era chiara: il nemico numero uno era diventato Hamas. La strategia israeliana pareva funzionare: tutti i 14 tentativi di riconciliazione tra Fatah ed Hamas, tesi a formare un governo di unità, sono falliti. Ma se Hamas piange, Fatah ha poco da festeggiare. A Gaza la sua popolarità è ormai compromessa.
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