Hervé Barmasse: «Salveremo il mondo con la bici e l’alpinismo green»
Intervista a Herve Barmasse, alpinista valdostano che ha scritto la storia di questo sport e punta all'impresa unica di scalare un 8mila d'inverno in “stile alpino”. “Le due ruote vanno messe al centro di un percorso verso le emissioni nette zero, ma tutti noi più in generale dobbiamo accettare i nostri limiti e le nostre paure, senza distruggere l'ambiente per superarli”.
di Cheo Condina
5' di lettura
«La rinuncia è saggezza. Se sull’Everest, in montagna o in qualsiasi ambito della tua vita non hai la forza o le energie per andare avanti, devi accettare i tuoi limiti e tornare indietro. Una volta che li conosci vivi meglio: in questo l’alpinismo, fatto in modo sostenibile, può essere di grande aiuto». Hervé Barmasse, originario di Valtournenche (Aosta), ha 45 anni: atleta, scrittore, regista e divulgatore, viene da una famiglia di guide alpine da quattro generazioni, e ha legato il suo nome a prime ascensioni realizzate in tutto il mondo, spesso affrontate in solitaria. Con una parola d’ordine: “rispetto per l’uomo e per la natura”.
La sua montagna d’elezione, anche per ragioni geografiche, è il Cervino, dove è l’unico insieme con il leggendario Walter Bonatti ad avere aperto una nuova via in solitaria. Ora, il suo sogno – tra gli altri – è quello di realizzare un’impresa mai riuscita a nessuno: scalare un 8mila durante l’inverno astronomico e rigorosamente in “stile alpino”, cioè senza sherpa, senza campi pre allestiti, senza corde fisse e senza ossigeno. In pratica facendo affidamento soltanto sulle proprie forze.
«Non tanto per essere il primo, ma perché credo che ciò potrebbe aiutare ad aprire la mentalità delle persone e spingerle a provare a farlo almeno d’estate», spiega Barmasse. L’alternativa è il consolidamento di un trend purtroppo già in atto, con le grandi vette europee e del massiccio hymalaiano, invase dalla “massa” che lascia dietro a sé una scia di rifiuti, mettendo a rischio l’ecosistema e gli equilibri di montagne già provate dal global warming.
Sostenibilità e ambiente sono due parole chiave per Barmasse: anche per questo ha deciso di muoversi in bicicletta - quattro tappe per un viaggio di 550 chilometri e più di 7000 metri di dislivello – da Valtournenche a La Villa, dove domenica 12 luglio correrà la Maratona delle Dolomiti, anche in veste di Enervit Ambassador.
Perché la scelta di arrivare fino alle Dolomiti in bicicletta dalla Valle d’Aosta?
La bici oggi si identifica con lo sport ma è nata come mezzo di trasporto ed è sinomino per definizione di sostenibilità. Mi piaceva l’idea di avvicinarmi alla Maratona utilizzando lo stesso mezzo con cui la corri e più in generale ritengo che la bici vada messa al centro del percorso verso un mondo a emissioni nette zero. Per questo servono innanzitutto più rispetto per i ciclisti, ma su questo credo ci sia ancora molta strada da fare specie nelle città, e la volontà politica di puntare su infrastrutture dedicate alle due ruote, in particolare nei centri urbani, dove è provato che nelle distanze fino a 10 chilometri la bici è il mezzo più veloce. È una questione di cultura, di mentalità e di benessere fisico: se nel Nord Europa ci sono riusciti da anni perché non possiamo farcela noi? Certo, è un processo lungo, ma prima o poi bisogna iniziarlo.
Che analogie vede tra la bicicletta e il suo mestiere, cioè l’alpinista?
La bici per un alpinista professionista è un gran mezzo per prepararsi fisicamente. Cosa hanno in comune i due sport: in bici tagli l’aria per chi ti sta a ruota, in montagna crei la traccia nella neve a favore del tuo compagno; l’alimentazione e la nutrizione sono fondamentali e in quest’ottica vorrei sottolineare il lavoro svolto con l’equipe Enervit sulla nuova linea C2:1PRO, che ha prodotti con un ingrombo ridottissimo, fondamentale per chi pratica lo stile alpino in montagna e in generale per tutti gli sport di endurance (Hervé Barmasse è brand ambassador di Enervit, ndr); e poi, mi pare scontato, bici e alpinismo hanno in comune le scalate, che sono il sale di entrambi gli sport.
Come vive un alpinista del suo calibro il surriscaldamento terrestre e la ritirata dei ghiacciai?
Purtroppo è un fenomeno evidente e come concetto, dal mio punto di vista, è già assodato e scontato. La specie umana è a rischio e lo capiremo solo quando apriremo il rubinetto dell’acqua e non ne uscirà. Siamo abituati a vivere nell’immediato, è difficile vivere pensando a chi verrà dopo. La montagna è un termometro evidente di tutto ciò, è diventata molto più pericolosa. Basta pensare che io vengo da quattro generazioni di alpinisti: un tempo il momento migliore per scalare il Cervino era d’estate, ormai si può salire in sicurezza solo d’inverno o in periodi freddi delle stagioni di mezzo.
A questo proposito, secondo lei scalare una montagna in stile alpino è l’unico modo per fare alpinismo in modo sostenibile?
Premessa: la montagna è bella perché è adatta a tutti. È solo una questione di scegliere il percorso più adatto e godersi la giornata con una sola regola: il rispetto per le altre persone e per l’ambiente. Allo stesso tempo la sostenibilità ambientale deve essere sorretta da quella sociale ed economica. Se dico agli sherpa nepalesi, che negli ultimi decenni hanno creato un indotto rilevante attorno alle scalate himalayane, che il modello va cambiato e bisogna salire solo senza il loro supporto, non sto facendo la cosa giusta. Non è sbagliata l’offerta ma la domanda: il nemico più grande dell’uomo è il suo ego e dovremmo accettare i nostri limiti, non cercare di raggiungere la vetta ad ogni costo, lasciando dietro a noi rifiuti di ogni genere, a partire dalle corde di nylon abbandonate persino dagli alpinisti professionisti. Il problema è che queste montagne sono state mitizzate e tutti vogliono toccarle con mano. Invece, per quanto mi riguarda, le esperienze più coinvolgenti mi è capitato di viverle su montagne meno conosciute e blasonate.
Il suo sogno è scalare un 8mila d’inverno in stile alpino, ci ha già provato due volte, ma invano.
Due anni fa abbiamo provato il Nanga Parbat dalla parete Rupal: 4500 metri che erano stati scalati solo d’estate. Sarebbe stata un’impresa straordinaria ma il maltempo ci ha fermato. L’anno scorso volevamo tornare ma ci è stato negato il permesso, all’ultimo abbiamo provato il Dhaulagiri in Nepal, era dicembre, ma anche in questo caso il meteo ci ha costretto a desistere.
Ha già in mente quando provare un nuovo assalto?
Non ho ancora deciso né quando né dove, ma ci sarà. Anche se un altro mio desiderio sarebbe quello di scalare un 8mila in solitaria (di solito viaggia con un compagno, ndr).
Con chi condivide le sue imprese appena compiute?
Prima di tutto con la mia famiglia, mia moglie e le mie due figlie di 4 e 5 anni.
Ha mai paura?
Certo, la paura deve esserci perché ti dà il senso del limite.
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