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«Ho vissuto tutti i cambi della moda. Ma il guadagno a ogni costo mi ha spiazzato»

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di Chiara Beghelli

6' di lettura

Quando Barni, esperto produttore e sperimentatore di rose, lo chiamò per chiedergli come avrebbe desiderato un nuovo fiore con il suo nome, lui rispose: «Viola con l’interno verde mela». Barni rispose che una rosa viola era impossibile da ottenere, e la “Capucci” nacque allora in rosa pallido, elegante e intensamente profumata. Quelle corolle vivono con grazia anche sulla grande terrazza affacciata sui tetti e le cupole di Roma, a due passi da Piazza Navona, da dove Roberto Capucci, 92 anni, osserva la sua città e il mondo, incessantemente impegnato a immaginarne di altri, che si manifestano come abiti ma che lo sono solo in apparenza. Autore di architetture di seta, di sculture di colori, di strutture algebriche da indossare, Capucci è «il miglior creatore della moda italiana, un prodigio», come lo definì Christian Dior.

“Robertino” lo chiamò Oriana Fallaci quando nell’estate del 1952 descrisse su «Epoca» il trionfo, in quella nursery della moda italiana che fu la Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze, di quel ragazzo che «non ancora a ventun’anno, alto come un soldo di cacio, timido e ingenuo come un liceale, ha presentato una collezione sorprendente». E che quando fece uscire in passerella un abito da sera in stoffa rigata da uomo, suscitando fragorosi applausi, «ebbe paura, fece il viso rosso e scappò». Anche quando il tempo e i successi lo hanno trasformato da “Robertino” in “Capucci”, il maestro ha sempre preferito il suono dei concerti all’Accademia di Santa Cecilia a quello del ciarlare della mondanità.

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Nel 1987 il Quirinale organizzò un gala per celebrare la moda italiana e c’erano tutti, Missoni, Armani, Valentino, Biagiotti. Capucci aveva appena portato oltre 120 abiti a Palazzo Venezia (la cronaca riportò di fotografi che riposero le macchine per applaudirli), ma non vi partecipò. Naturalmente riservato, aveva forse già chiaro il suono di quello che lui definisce «un campanello di allarme»: «Erano gli anni 70, andavano molto di moda le cravatte di maglia unita dove cambiava solo il logo. Cominciò Yves Saint Laurent e poi tutti dietro».

Ecco, in quel «tutti dietro» c’è molto Capucci. C’è lui che una mattina osserva su via Condotti coloro che «arriva il primo caldo ed escono in mostra con sopracciglio depilato alla Marlene Dietrich mettendo in mostra i loro palestrati corpi tatuati, anellati, il loro pazzesco guardaroba», come annota nelle sue caricature e con il medesimo sarcasmo che duemila anni prima Marziale riservava a chi passeggiava nel Foro. C’è il maestro al quale il «tutti dietro» ha sempre destato sospetto, anche negli anni in cui si moltiplicavano le “capuccine”, le sue fan, come le definiva Irene Brin, giornalista, amica e cliente . È il destino di chi preferisce dar retta alla sua creatività, più che ai soldi, lui stesso lo ha rimarcato più volte, più come un artista che come uno stilista. Poteva essere diverso per “Robertino” che dopo il liceo artistico scelse l’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ebbe come maestri Mazzacurati e Avenali? Ma dal momento che al disegnare nature morte preferiva gli abiti, la giornalista Maria Foschini (con cui sua madre sospettava una liaison, nonostante i 70 anni della mentore) lo convinse ad aprire un atelier in via Sistina. Era il 1950, quando a Roma la moda era sia fatta sia vestita da aristocratici, come Irene Galitzine, Simonetta Colonna di Cesarò, Giovanna Caracciolo. E si vestivano le donne seguendo l’ispirazione dei sogni, con abiti che erano decantazioni tessili di visioni estetiche. Non erano ancora gli uffici marketing a orientare quelli dedicati allo stile, perché non esistevano.

Nel 1961 Capucci aprì anche a Parigi, sulla stessa rue Cambon di Chanel, lui al 4, lei al 31. La incontrava spesso perché entrambi soggiornavano nel vicino Ritz. «Ho vissuto tante trasformazioni – continua Capucci –. Da una moda esclusivamente di atelier degli anni 50 e in parte 60 all’inizio dell’ingresso dell’industria negli anni 70 al declino degli atelier negli anni 80 e 90, fino alla globalizzazione di oggi. È un mondo che è stato in perpetuo cambiamento. Sono riuscito a seguirlo fino a un certo punto. Ho compreso, anche se non condiviso, l’industrializzazione e quindi una diffusione maggiore della moda, che gestita in un certo modo andava benissimo. Ma poi la logica del guadagno a ogni costo mi ha spiazzato».

Per questo, nel 1982, nel pieno del passaggio, anche geografico, dall’asse Roma-Firenze della moda di atelier al pret-a-porter lombardo-centrico, Capucci decide di lasciare la Camera nazionale della moda e il suo calendario con due collezioni l’anno. Pur non essendoci mai entrato, esce dalla nuova natura industriale della moda, e si vota consapevolmente a un destino di nicchia. «Se quello che fai o crei non piacerà alle folle cerca di deliziare i pochi. È un errore voler piacere a tutti»: questa citazione di Schiller è una delle sue preferite. «Il rischio è che quando l’unico obiettivo è il prodotto c’è poco spazio per le belle cose e la moda dovrebbe essere fatta di belle cose – argomenta –. Il mercato di nicchia esiste, bisogna sapersi accontentare, capire e seguire i valori in cui si crede. Se invece si vuole entrare nel grande mercato, allora bisogna seguirne le regole».

Sempre nei cruciali anni 70, Paul Virilio formulava la “dromocrazia”, il potere della velocità che avrebbe plasmato tutti gli ambiti del vivere. Anche la moda. Da qualche anno molti marchi praticano i “drop”, lanci continui di piccole collezioni per tenere alta l’attenzione dei clienti. Se nel 1998 Capucci portò il suo abito “Oceano” al padiglione italiano dell’Expo di Lisbona, 300 metri di seta in 172 sfumature di azzurro, lo fece grazie al lavoro di cinque sarte per cinque mesi. I 232 modelli presentati alla Schauspielhaus di Berlino erano nati dopo 18 mesi di gestazione sartoriale.

Questa peculiare concezione del tempo ha progressivamente condotto gli abiti Capucci ad abitare spazi atemporali come musei e teatri. L’ultima mostra, «Seriche armature», si è chiusa di recente al Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci a Fontanellato (dove lui è intervenuto di presenza all’apertura e poi con una brillantissima performance in video-intervista alla chiusura, dove ha sfoderato molti aneddoti, tra i quali la sua passione per la più bella da lui vestita, Silvana Mangano), la prossima è prevista in maggio a Villa Manin di Passariano, che dal 2018 ospita i preziosi archivi della Fondazione Capucci. Abiti che sono stati al V&A di Londra, al Kunsthistorisches di Vienna, a Venezia a dialogare con i plissé di Fortuny e alla Biennale, sotto gli affreschi di Benozzo Gozzoli a Montefalco e le volte dorate di Palazzo Colonna a Roma. «Sto tornando alla mia primissima passione, i costumi di scena. In questo contesto vieni giudicato soprattutto per la tua capacità creativa», sottolinea.

Lavorare sempre in libertà, senza condizionamenti, fu d’altra parte l’originario consiglio di Giovan Battista Giorgini, l’inventore delle sfilate fiorentine, proprio colui che lo volle a Palazzo Pitti quando era ancora “Robertino”, sfidando le ire e i sospetti dei grandi maestri di allora. Alcuni dei bozzetti per i costumi del balletto «Le creature di Prometeo/Le creature di Capucci», tre anni fa al Festival dei Due Mondi di Spoleto, sono custoditi al Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, dove forse li raggiungeranno quelli per gli abiti di scena dei protagonisti della Turandot dell’amato Puccini, in cartellone al Petruzzelli di Bari il prossimo settembre.

Quando nella rivista «Matematica e cultura» è stato dimostrato che gli abiti di Capucci esprimono concetti di geometria differenziale, si è aperto un più luminoso spiraglio di verità sul rapporto del maestro con le leggi universali. Siamo immersi nell’eternità, il tempo è un illusione. E nell’eternità sono immersi i nomi delle donne, le icone, che Capucci ha vestito, da Marilyn Monroe (mai incontrata di persona), a Esther Williams che volle il “Nove gonne”, l’abito con cerchi di stoffa che evocano quelli che si creano nell’acqua; poi Silvana Mangano, ideale femminile assoluto vestita in Teorema dell’ammirato Pasolini, l’amica Rita Levi Montalcini, che volle far sembrare una regina in verde, viola e amaranto e con coda, discreta ma consapevole, quando ricevette il premio Nobel. «Chi mi piacerebbe vestire delle donne di oggi? Purtroppo nessuna. Non esistono più personaggi come la principessa Diana o Franca Valeri (altra sua grande amica, ndr), ossia quella tipologia di donne che hanno fatto la storia in diversi campi e hanno un loro inconfondibile stile. Oggi si tratta solo di seguire concerti di musica pop e da quelli, dalla strada allo street style, la moda prende spunto e non sarà mai una moda piena di eleganza e creatività».

Fra le vittime di questa moda “dromocratica” c’è anche la creatività dei giovani stilisti: «Il marchio, o brand come si dice oggi, non deve essere più importante del creatore di moda – nota Capucci –. Fra gli stilisti delle ultime generazioni mi sono fermato a John Galliano (oggi alla guida di Maison Margiela, ndr), un creativo puro, belle le sue creazioni per Dior che ricordano molto il costume. Bisogna lasciare che sia la propria creatività a guidare. Poi penso a come sia diverso il concetto di creatività in Occidente e in Oriente – aggiunge –, da una parte la ricerca della perfezione, fatta di minuscoli dettagli, dall’altra il cambiamento perpetuo. Ora i due mondi si stanno incrociando e sono curioso di vedere cosa ne verrà fuori. Al momento è caos, ma anche il Big Bang fu caos, poi ne è venuto fuori l’Universo». «A ritroso, la creazione la vedono tutti gli intellettuali. Avanti, nel futuro, solamente gli artisti», scriveva Paul Klee. Ed è quello che fa tutti i giorni, fra le rose della sua terrazza, l’artista Capucci.

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