«House of cards», finale in tono minore (con perdite da 39 milioni)
di Francesco Prisco
3' di lettura
Anche le più grandi storie d’amore finiscono. Figuriamoci le storie di odio, ambizione, potere e tradimenti. Venerdì 2 novembre - guarda caso giorno dei morti - parte la sesta, ultima stagione di House of cards, serie Tv prodotta da Netflix che divide la storia delle serie Tv tra un prima e un dopo.
Una storia di odio, ambizione, potere e tradimenti che, per diverse centinaia di milioni di spettatori in giro per il mondo, è stata soprattutto una meravigliosa storia d’amore. Che li ha appassionati alle gesta di un politico senza scrupoli (Frank Underwood), interpretato da un attore superlativo (Kevin Spacey).
Li ha convinti magari a sottoscrivere un abbonamento per una piattaforma di streaming on demand (Netflix, appunto), li ha tenuti spesso col fiato sospeso, a tratti li ha spiazzati, qualche volta li ha pure delusi perché la serialità è sempre un mondo difficile (da governare). Ma nulla probabilmente li ha spiazzati e delusi come la caduta del proprio attore/eroe preferito, quell’Underwood/Spacey che era un gran farabutto sullo schermo, ok, ma poi si è scoperto pure molestatore di minorenni nella vita reale, subito dopo che l’onda lunga del movimento #Metoo si è abbattuta sulle colline di Hollywood.
Gli episodi scendono a otto
Ed eccola qui la stagione «definitiva» della serie creata da Beau Willimon, dal 2 novembre subito disponibile con tutti gli episodi online su Netflix e in prima Tv su Sky Atlantic alle 21.15. Quello che dovete sapere, probabilmente, lo sapete già: Frank è morto, all’insegna del più classico espediente narrativo per eliminare un attore dal cast, almeno dai tempi di Dallas a questa parte. Le luci dei riflettori e i flash dei fotografi sono tutti per Claire Underwood (Robin Wright), la vedova nel frattempo divenuta presidente degli Stati Uniti al suo posto. L’ultima stagione sarà più breve delle precedenti: solo otto episodi, ossia cinque in meno. Particolare non di poco conto che restituisce il clima di grande confusione che ne ha accompagnato la gestazione.
Un problemino da 39 milioni
La grana Spacey è costata a Netflix qualcosa come 39 milioni di dollari. Questa la cifra che Scotts Valley ci ha rimesso per «licenziare» il due volte premio Oscar da House of cards e annullare la produzione di Gore, biopic sulla vita dello scrittore Gore Vidal che sempre lui avrebbe dovuto interpretare. Mossa tutt’altro che semplice, considerando che Spacey ricopriva pure il ruolo di produttore esecutivo dei due progetti. L’impatto non è stato di poco conto per la serie da circa 60 milioni di budget a stagione, né è difficile immaginare che la scelta di ridurre il numero delle puntate della sesta annualità nasca da un lato dall’esigenza di fronteggiare l’improvvisa dipartita del personaggio principale (con la conseguente riduzione dei possibili intrecci di plot), dall’altro dall’esigenza di contenere i costi.
Una scommessa (vinta) da 130 milioni di abbonati
Finale in tono minore? Può essere, ma non vi salti in mente di mettere in dubbio il ruolo storico di House of cards per l’industria dell’entertainment ai tempi dello streaming. Se infatti Il trono di spade, blockbuster di casa Hbo, rappresenta la serie di maggior successo di sempre, la rivoluzione di usi e costumi del pubblico l’ha fatta il patron di Netflix Reed Hastings quando nel 2013, mettendo sul tavolo 100 milioni di dollari, si è assicurato i diritti del romanzo di Michael Dobbs, già oggetto di un precedente adattamento a opera di Bbc, per le prime due stagioni di House of cards.
Tirando dentro Spacey, un numero uno assoluto del cinema che all’epoca nessuno avrebbe immaginato protagonista di una serie Tv, e registi di grande esperienza come David Fincher, James Foley e Joel Schumacher. Risalendo la filiera della screen economy dal gradino di distributore a quello di produttore. Gli abbonati alla piattaforma di streaming, quando la sfida è partita, erano 33 milioni, quasi tutti negli Stati Uniti. Oggi Netflix ne conta 130 milioni dislocati su 190 mercati diversi.
Il tempo del binge watching
La rivoluzione di usi e costumi, dicevamo: il cosiddetto binge watching, la pratica di guardare dall’inizio alla fine tutte le puntate di una stagione, è cominciato lì, perché per la prima volta un distributore ti offriva un’intera stagione immediatamente disponibile online. Una pratica che, secondo lo studio Digital Democracy di Deloitte, coinvolge il 90% della generazione dei millennials. Con buona pace di chi era abituato all’appuntamento televisivo settimanale per una nuova puntata. Come diceva il vecchio Frank? «Se non ti piace com’è apparecchiata la tavola, cambia posto». Esattamente quello che ha fatto Netflix. Convitato di pietra con cui tutte le media company del pianeta sono adesso obbligate a fare i conti.
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