testo unico finanza

I 20 anni dalla legge Draghi: così la Borsa è cambiata

di Morya Longo

(ANSA)

4' di lettura

In fondo è stato il suo primo «whatever it takes». Il Testo unico della finanza, elaborato esattamente vent’anni fa da Mario Draghi quando era direttore generale del Tesoro, ha senza dubbio rappresentato un punto di svolta per il mercato finanziario di questo Paese. Come le celebri parole che anni dopo Draghi ha pronunciato in veste di presidente Bce. Perché questo monumentale volume normativo varato il 24 febbraio del 1998 – che ha messo insieme, semplificato e migliorato le molte leggi che prima regolavano il mondo della Borsa e degli investimenti – ha contribuito a traghettare un piccolo mondo antico come la Borsa di Milano verso l’era moderna. Anticipando di anni molti temi poi introdotti dalla direttiva Mifid.

Oggi nel Testo unico della finanza (Tuf) resta ben poco dell’elaborato iniziale, dato che in vent’anni è stato modificato 70 volte per recepire le normative europee. Per molti aspetti in realtà già anticipava la normativa europea. Per altri le varie direttive l’hanno migliorato. Per altri aspetti invece no, e tutt’oggi la vecchia Legge Draghi mantiene alcuni dei difetti che aveva allora. Uno fra tutti: la poco chiara divisione dei compiti di vigilanza tra la Consob e la Banca d’Italia. Ai tempi l’ambiguità era nata a causa del braccio di ferro tra le due autorità sul tema delle competenze. I testimoni di allora riferiscono di diverbi anche accesi tra le due autorità. Sta di fatto che questo è uno dei motivi per cui neppure il Tuf, che si poneva l’obiettivo di rafforzare la tutela dei risparmiatori, è riuscito a evitare i casi di risparmio tradito che da Cirio e Parmalat fino ai bond subordinati hanno bruciato miliardi delle famiglie italiane.

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Piccolo mondo antico

Nel febbraio 1998, quando Draghi varava l’omonima legge, il mercato finanziario italiano aveva un’impostazione ancora feudale e locale. Le azioni si compravano e vendevano in lire, Piazza Affari era un incrocio intricato e oscuro di patti di sindacato e di capitalismo famigliare. La Borsa aveva ancora una concezione pubblicistica. In Italia non esisteva un vero mercato obbligazionario, se non quello dei titoli di Stato. In Borsa erano quotate 243 aziende, contro le 417 attuali. Oggi non si può certo dire che la piazza finanziaria italiana abbia fatto passi da gigante, dato che resta di piccole dimensioni e dominata da società famigliari. Tant’è che in vent’anni la capitalizzazione del mercato azionario non è aumentata in maniera significativa, passando dai 485 miliardi di euro del 1998 (pari al 42% del Pil) ai 677 miliardi attuali (pari al 41% del Pil).

Ma molte cose sono comunque cambiate. Grazie anche alla certezza normativa impostata dal Testo unico della finanza. Il listino milanese ha attirato molti investitori internazionali (oggi circa il 90% del flottante è in mani estere). La stessa Borsa Italiana è finita nelle mani di quella di Londra. Oggi esiste un mercato crescente di obbligazioni aziendali. Le tutele per i piccoli risparmiatori, soprattutto ora che è entrata in vigore la direttiva Mifid 2, sono in molti casi aumentate. Il mondo della finanza è insomma cambiato, anche in Italia. Si sarebbe evoluto ugualmente, ma il Tuf ha avuto il merito di in quegli anni accompagnarne il cambiamento con quella certezza normativa necessaria per attirare investimenti. Non sufficiente per far crescere davvero la piazza finanziaria italiana, certo, ma necessaria.

Obiettivi raggiunti e mancati

Quando il Tuf venne varato, il Tesoro si poneva alcuni obiettivi. Il primo, principale, era di mettere ordine in una selva di leggi e regolamenti poco chiari e poco organici. «La legislazione precedente come il decreto Eurosim – osserva Gioacchino Foti, counsel dello studio legale Clifford Chance – era legata a una concezione pubblicistica della Borsa e paternalistrica delle autorità di vigilanza. Il Tuf ha superato questa impostazione, proponendo un più moderno modello di mercato e di Vigilanza». Il Tuf ha dunque messo ordine alla legislazione, creando chiarezza su molti aspetti.

Eppure c’erano allora e restano oggi ancora alcune pecche. Prima fra tutte, come già accennato, la troppo vaga definizione delle competenze tra Consob e Bankitalia che creano ambiguità. E che, purtroppo, hanno prodotto scaricabarile di responsabilità dai casi Cirio e Parmalat (chi doveva vigilare sui bond venduti ai risparmiatori?) a quelli recenti dei bond subordinati bancari (come è emerso durante la Commissione parlamentare d’inchiesta). Ma di punti dove le due Autorità si pestano i piedi ce ne sono molti altri, meno noti. Per esempio in tema di risparmio gestito: Consob ha il compito di verificare la correttezza dei comportamenti dei gestori, mentre Bankitalia la sana e prudente gestione dei fondi stessi. Praticamente la stessa cosa detta in maniera diversa. Oppure Bankitalia controlla Mts (il mercato all’ingrosso dei titoli di Stato) mentre Consob la Borsa Italiana. E oggi, con Mifid 2 che ha assegnato molti poteri anche all’Esma, si crea ancora più ridondanza. Insomma: sovrapposizioni che provocano confusione e – appunto – riducono l’efficacia dei controlli anti-truffa.

Alcune cose sono cambiate negli anni, per esempio grazie al decreto salva-risparmio varato nel 2005 dopo i casi Cirio e Parmalat. Ora con Mifid 2 la Consob ha anche il potere di bloccare alcuni prodotti finanziari (la cosiddetta product intervention), anche prima che vengano commercializzati. Ma tanti nodi di vigilanza sono ancora da sciogliere. Il Regno Unito ha risolto questo problema, spaccando in due la “vecchia” Autorità di Vigilanza. Ora esiste la Prudential regulation Authority che controlla lo stato di salute degli intermediari e la Financial Conduct Authority che si occupa delle relazioni con i clienti. Questo – pensano alcuni – è un modello che potrebbe essere imitato.

C’è poi un altro punto dolente, non tanto per colpa del Tuf italiano quanto per il fatto che l’Unione europea non ha mai voluto armonizzare la materia: la normativa sull’Opa. «L’Europa – spiega spiega Lucio Bonavitacola, partner di Clifford Chance – ha varato una direttiva nel 2004 sul tema dell’Opa, lasciando ampia discrezionalità tra gli Stati nell’applicazione. Questo crea problemi di asimmetrie e di mancanza di reciprocità». Forse su questo tema, come su quello della Vigilanza, servirebbe un nuovo «whatever it takes».

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