I brand chiusi in una stanza, Clubhouse divide il mondo del marketing
Da Peroni a Barilla, da Pescaria a Ikea ecco le testimonianze e i consigli dei manager che hanno già debuttato mettendoci la propria voce
di Giampaolo Colletti e Fabio Grattagliano
8' di lettura
Metterci la faccia mettendoci la voce. Nel tempo degli effetti speciali multimediali e immersivi c'è una piattaforma che ha scelto di andare controcorrente. O forse no. Perché Clubhouse – social network statunitense con chat audio ad invito, nato nell’aprile 2020 e quindi durante la prima ondata della pandemia segnata dai lockdown – si sta imponendo rapidamente proprio per l’uso semplificato del solo mezzo vocale. L’intuizione è di due ex ingegneri di Google, Paul Davison e Rohan Seth. A dicembre 2020 la valutazione sfiorava i 100 milioni di dollari.
Parlare e non postare
La voce diventa fugace e labile perché è da fruire in tempo reale e senza memoria. Ma la voce parla anche ad una tribù volutamente ristretta e su invito (il palcoscenico è condiviso, ma non supera i cinquemila utenti). Un modello che richiama quello delle radio degli anni ’70 fatto di conversazioni continue, solitamente portate avanti senza scalette e canovacci nelle ore notturne. Clubhouse come croce e delizia dei professionisti del marketing, che ancora faticano a decifrare il potenziale racchiuso in una app valutata oltre 1,2 miliardi di dollari. Tant’è che a fronte di alcuni pionieri che si sono lanciati nella sperimentazione sulla piattaforma, altri brand si mostrano molto cauti (se non scettici), in attesa che si comprendano meglio opportunità e strategie, minimizzando i rischi di una presenza in presa diretta e senza paracadute.
«Dopo molte interazioni nello spazio audio abbiamo lanciato Clubhouse per costruire un’esperienza sociale più umana, dove invece di postare si può parlare. La cosa che amiamo di più è come la voce possa unire le persone. In uno degli anni più turbolenti e travagliati che molti di noi hanno vissuto, le persone su Clubhouse si sono riunite per conversare», hanno scritto i due fondatori, che hanno raccolto già nella primavera 2020 ben 12 milioni di dollari di finanziamenti. Oggi l’app conta 6 milioni di utenti, con una crescita limitata solo dal meccanismo di iscrizione confinato al sistema operativo iOS.
“Per molti, ma non per tutti”: così recitava uno spot degli anni ’80 entrato nell’immaginario collettivo. E in fondo quel concetto esclusivista dell’invito ci riporta ad una dimensione elitaria. Al bando la ricerca spasmodica delle platee sterminate e quasi generaliste con le metriche quantitative. Oggi si punta sulla nicchia qualitativa, con quelle stanze aperte che in fondo hanno la porta socchiusa. “Quello che viene detto su Clubhouse rimane su Clubhouse”, si legge nel manifesto identitario. Nei consumi digitali contemporanei tutto questo rappresenta un cambio di baricentro, perché implica una condivisione del potere editoriale che diventa diffuso nella community, potenzialmente però fuori controllo e a rischio privacy, come ha rilevato pochi giorni fa lo Stanford Internet Observator.
Quei confini che richiamo le élite
«Clubhouse è la rivincita della parola a discapito dell'immagine. Forse la conferma dei podcast e degli audiolibri, l’oralità tanto ben raccontata da Walter Ong, contrapposta oppure in continuità e discontinuità con la scrittura. C’è poi l’elemento della non-memoria, che lo rende diverso. Forse il più vicino alla radio tra i media mainstream? Un medium caldo, come McLuhan aveva considerato il mezzo radiofonico?». Se lo chiede Lella Mazzoli, direttore dell’Istituto per la formazione al giornalismo dell’Università di Urbino, dove insegna comunicazione di impresa.L’impatto riguarda l’ambito sociologico e relazionale, ben oltre quello meramente tecnologico. «È un’evoluzione che va di pari passo allo sviluppo della società. Con l’avvento dei social siamo passati ad una comunicazione fortemente centrata sulle immagini, anche in movimento. Fino a poco tempo fa sembrava che questo fosse ineludibile, immodificabile. In fondo è un ritorno alla parola come protagonista, ad una non-permanenza della memoria, a una selezione per entrare e partecipare. Clubhouse è una sorta di gruppo sociale secondario che la sociologia anni ’50 ha ampiamente analizzato. Sono gruppi che si costituiscono per un motivo aggregativo come il lavoro, gli amici, la politica e il partito, ma anche per motivi legati al proprio mondo della vita. Tutto questo significa comunità che condividono pensieri e scelte anche spontanee, non razionali: si partecipa se ci sono legami di un qualche tipo tra gli ammessi o addirittura eletti. Le tracce non restano scalfite se non nella propria memoria e relazione», precisa Mazzoli. Così emerge un dentro e c’è un fuori, con quei confini che richiamano le élite. C’è una sorta di sistema aperto-chiuso di luhmanniana memoria. Un sistema in grado di far entrare ciò che serve per il suo funzionamento, ciò che è congeniale al sistema e al tema e di far stare fuori ciò che potrebbe essere di disturbo», conclude Mazzoli.
Esserci, ma mettersi in ascolto
«È evidente che Clubhouse sia esploso in un momento in cui ci manca l’incontro fisico, il contatto, la relazione diretta oltre gli schermi. Il dubbio legittimo è se sta rispondendo ad un bisogno legato alla mera contingenza, oppure interpreta una necessità di lungo periodo». Così Bruno Bertelli, Direttore Creativo di Publicis a livello mondiale, si interroga se questa piattaforma, esplosa anche in Italia nelle ultime settimane, non sia esclusivamente figlia del tempo fragile della pandemia legato a restrizioni e lockdown. Ma tra opportunità o bluff c’è una terza via che richiama alle caratteristiche intrinseche dell’app. «Siamo in presenza di un social specifico con elementi molto definiti e chiare regole di ingaggio. Tra queste spicca la verticalità delle stanze. E quindi quel tempo che devi avere a disposizione e che comporta una profondità nell’affrontare gli argomenti specifici. Anche in questo caso è il riflesso del tempo espanso legato alla pandemia, che ha stravolto le nostre vite. Ma in fondo questa verticalità è anche una risposta alle critiche sulla superficialità costante che spesso si annida nei social media», precisa Bertelli, che come Publicis ha accompagnato Barilla tra le stanze di Clubhouse.E mentre i pubblicitari lavorano da sempre per catturare l’attenzione anche per pochi secondi, Clubhouse di fatto prova a espandere il tempo di consumo digitale. «È l’elemento disruptive di questa piattaforma. Tutto questo implica un impegno costante: occorre metterci la testa e provare a interagire, coinvolgere. Il numero chiuso è un valore che si traduce in effectiveness. Quando si lavora sull’awarness, quindi sulla fama, occorre intercettare il numero più ampio di utenti. Ma se operi su obiettivi più espliciti legati alla conversione il numero chiuso ti viene in soccorso perché ti protegge e moltiplica l’efficacia. Oggi per come viviamo connessi il problema più grosso per noi pubblicitari è legato alla memorabilità. La memoria è più fugace, labile. Qui l’esposizione si sviluppa nel tempo», dice Bertelli.
Nella stanza di Elon e Mark
In fondo il futuro sarà nel privato: lo aveva affermato Mark Zuckerberg alla conferenza annuale degli sviluppatori di Facebook già due anni fa. Non a caso proprio lui, insieme a Elon Musk, ha scardinato le porte delle stanze. Il papà di Tesla e SpaceX ha invitato addirittura Vladimir Putin su Clubhouse, con una risposta possibilista da parte del Cremlino e affidata all’agenzia Tass. Ma esserci o non esserci? Questo è il dilemma per le aziende. Nel mondo il primo brand ad abitare queste nuove stanze è stato Burger King, Ma arrivarci implica un lavoro preparatorio perché nel club si dialoga senza paracadute. È la rappresentazione plastica della disintermediazione in atto. La sfida si misurerà sull’intrattenimento di qualità e sulla personalizzazione dell’impresa attraverso manager che diventano vocalist. Ancora una volta l’evoluzione dei linguaggi nei precari equilibri dei social edonistici ci riporta all’escalation segnata dal personal branding.
Quindi la vera questione è un’altra: sapranno i nuovi manager d’impresa – i leader che guidano i brand nella disintermediazione in atto con i clienti e che detengono ancora il tesoretto della fiducia in un mondo che ha perso riferimenti – saper intercettare l’interesse di nicchie selezionate di pubblico ispirando, conversando, aiutando?
I brand su Clubhouse/1: Consorzio Parmigiano Reggiano
«In questa fase pre-invasiva abbiamo voluto solcare questi terreni battuti per ora da un pubblico sensibile e preparato». Così sostiene Carlo Mangini, direttore marketing, comunicazione e sviluppo commerciale del Consorzio Parmigiano Reggiano. Il brand è stato ospite su “I persuasori occulti”, la stanza aperta da Paolo Iabichino e Giovanni Boccia Artieri. «Abbiamo deciso di entrare per metterci in ascolto degli stimoli di una platea che ha provato a ripensare lo spot di trenta secondi. Abbiamo chiesto perché consigliare e consumare il nostro prodotto», precisa Mangini. Un ascolto collettivo, con la parola passata come testimone in una maratona senza tempo. «In gioco c’è il coinvolgimento in un ambiente senza rete. Qui hanno la meglio quelle marche con una forte appartenenza identitaria, inclusiva e iconica. Ma i limiti restano nella tutela della privacy».
I brand su Clubhouse/2: Pescaria
Un aperitivo di pesce e tante chiacchiere sulla piattaforma vocale del momento. Nella prima domenica di febbraio Pescaria ha aperto la sua stanza, replicando in queste ore con l’inaugurazione anche su Clubhouse del suo ottavo locale a Napoli. Così questo format di ristorazione nato a Polignano a Mare e presente in tutta Italia ha deciso di affrontare il servizio puntando sulla conversazione. «Abbiamo ospitato amici e clienti prospect. Questo spazio è capace di mettere in relazione diretta consumatori e marche, ma per affrontarlo al meglio serve autenticità perché non ci si può sottrarre al confronto», afferma Domingo Iudice, co-fondatore di Pescaria e di Brainpull. Tutto deve basarsi sulle persone, che ci mettono la voce. «La conversazione non è controllabile perché senza paracadute: la sfida per i manager è diventare nel tempo abili comunicatori».
I brand su Clubhouse/3: Barilla
«La scelta di creare una app basata su contenuti vocali e per di più live ha un grandissimo potenziale. C’è spazio per un ricco palinsesto di contenuti di valore, oltre alle chiacchiere da bar». Così afferma Alessio Gianni, Global Digital Marketing VP di Barilla. Il colosso emiliano ha partecipato ad alcuni talk su alcuni progetti portati avanti. «Rispetto alle altre piattaforme è un canale di relazione molto umano. Le limitazioni sono dovute all’essenzialità dello strumento, che è ancora ai primi passi. Coraggiosa la scelta di non rendere disponibile la registrazione delle stanze per un ascolto in differita: seguire lo “streaming of consciousness” di chi parla richiede molta attenzione», puntualizza Gianni. Si procede però con prudenza. «Prima di scendere in campo ufficialmente occorre chiarire gli aspetti di privacy e aggiornare la public speaking policy».
I brand su Clubhouse/4: Peroni
«Ogni social media assume la forma di chi lo abita. L’aspetto che colpisce di Clubhouse è che – a dinamiche comunicative spesso complesse, artificiose e narcisistiche – contrappone l’autenticità del dialogo diretto e senza filtri». Così Francesca Bandelli, direttore marketing e innovation di Birra Peroni, eccellenza italiana nata nel 1846, presente in Italia con 3 stabilimenti, 750 dipendenti e diffusa in 71 Paesi. Insieme a Ninja Marketing è stata creata la stanza “Powered by Peroni”. «Nel giorno di San Valentino abbiamo commentato le campagne più originali dedicate all’amore e raccontato la nostra. E abbiamo chiesto ai nostri consumatori una dichiarazione d’amore», precisa Bandelli. Per questa manager la forza di Clubhouse sta nella raccolta del feedback in tempo reale, ma resta un interrogativo: in assenza di identità visiva quale sarà la voce giusta per far parlare i brand?
I brand su Clubhouse/5: Inter
«Clubhouse? Per il momento ha il sapore delle radio negli anni ’70. Vedremo cosa succederà in futuro». Ad affermarlo è Roberto Monzani, Media House Director di Inter. Il club nerazzurro ha aperto una stanza in occasione del derby, con il sostegno creativo dell’agenzia Alkemy. «The night before è stata un’opportunità per studiare ancora meglio il funzionamento della piattaforma e valutarne le potenzialità. Clubhouse è un po’ all’origine dei social: interazione in tempo reale. Il fatto che sia solo per iOS ha fatto sì che i numeri rimanessero più circoscritti. Ma questa crescita graduale è un vantaggio dal punto di vista della gestione delle stanze», precisa Monzani. La forza sta nella premiumness, ma il limite è nella moderazione. «Aprire i microfoni, soprattutto per brand che muovono tanta passione come il nostro, rischia sempre di essere pericoloso».
Brand su Clubhouse/6: Ikea
«Clubhouse afferma il valore della conversazione, aperta e circolare. In questo ultimo anno ci siamo interrogati su nuovi modelli di relazione. Clubhouse riduce i gradi di separazione tra i pubblici», afferma Matteo Bellini, Integrated Media Manager di Ikea. Il colosso svedese in Italia ha aperto una casa virtuale divisa in stanze per i vari momenti della giornata, affidati a figure autorevoli dei social: un living room con Luca Mazzuchelli, una cucina per la pausa pranzo con Gnambox e una camera da letto con Stefano Guerrera. «Abbiamo fatto quello che sappiamo fare meglio, cioè arredare una casa. Il limite di Clubhouse è più tecnico ed è legato alla sola partecipazione degli utenti Apple a scapito degli altri. Tra i punti di forza c’è la possibilità di entrare in contatto con un pubblico vasto in modo autentico, e creando dei dialoghi familiari», precisa Bellini.
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