I brand puntano su clima e diversità? Per 6 italiani su 10 è solo business
Dalla generazione Z ai boomers, uno studio Omnicom rivela come i consumatori percepiscono con scetticismo le buone intenzioni sbandierate nelle campagne di marketing che si stanno moltiplicando
di Giampaolo Colletti e Fabio Grattagliano
4' di lettura
Cinque persone tra i 50 e 60 anni d’età, tutte sorridenti durante una lezione di yoga. È questa la foto più venduta negli ultimi mesi da parte dell’agenzia Getty Images. Lo scatto è stato realizzato in Germania ed è diventato best seller nel mondo. «Anche per questa ragione abbiamo pensato di creare un archivio di fotografie che possano andare contro i soliti stereotipi legati alle fasce mature della popolazione. Oggi i sessantenni esprimono socialità, dinamismo, senso di appartenenza, consapevolezza negli acquisti. Una generazione attiva e che fa la differenza», ha dichiarato al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Rebecca Swift, direttrice artistica di Getty.
Le lenti dei boomers sul purpose
Una rivincita dei baby-boomer, ossia dell’ultima fascia di popolazione attiva, dopo mesi di narrazione monopolizzata quasi esclusivamente dai cluster più giovani, con quell’effetto trascinamento raccontato anche dal Guardian e legato a Greta Thunberg, eroina contemporanea per generazione Z e pre-millennial.
Ma oggi emerge come la popolazione a cavallo tra i 54 e i 64 anni d’età incida nelle scelte d’acquisto, nell’adozione di stili di vita, nella consapevolezza dei consumi. Un ruolo di guida verso azioni autentiche e consapevoli. Il dato emerge dalla ricerca “Purpose Italia” promossa da Omnicom, società specializzata in pubbliche relazioni e affari istituzionali.
Al crescere dell’età aumenta la preferenza verso brand con un purpose, ossia con una ragion d’essere, esplicito e responsabile. Valori che se individuati dal consumatore si riflettono poi in scelte d’acquisto. Oggi l’82% di questo campione anagrafico preferisce prodotti di aziende impegnate, mentre il dato scende al 59% nella fascia 18-24 anni e al 55% con la generazione Z.
I boomers
Interessarsi al mondo che ci circonda con azioni e narrazioni sostenibili, circolari, sociali, perfino politiche: così i target più maturi navigano in rete, si informano maggiormente, cercano di orientarsi nel continuo stream tra post, news, tweet. Anche per questa ragione probabilmente cresce la diffidenza in merito alle effettive intenzioni dei brand: il 74% dei boomer intervistati non si fida troppo.
«Il nuovo e recente paradigma del purpose è stato recepito dai baby boomer italiani con grandissimo favore. È come se avessero detto “wow, vediamo se si apre realmente una nuova era nel modo di fare business” — sottolinea Massimo Moriconi, amministratore delegato di Omnicom Pr Group Italia —. Ma contemporaneamente i boomers pensano che “siccome finora le aziende si sono mostrate molto più attente all’utile, manifestiamo diffidenza e pensiamo che siano poco interessate al mondo che ci circonda”».
La generazione Z
Ribaltato invece l’approccio della fascia d’età che va dai 18 ai 24 anni. «Hanno una visione più benevola nei confronti dei brand, convinti che effettivamente siano interessati ad incidere significativamente sul pianeta. Ma è come se pensassero che questa fiducia sia da guadagnare giorno per giorno— aggiunge Moriconi -. Come? Dimostrandolo con azioni concrete che impattano sul territorio, sulle comunità, sul pianeta. E soprattutto su azioni che siano verificabili, quantificabili, tangibili».
È già la fase del disincanto?
Lo studio complessivo ha messo a fuoco per la prima volta il purpose, analizzato in 12 settori chiave dell’economia italiana e in 25 top brand. Dalla fotografia appare un legame tra scelte d'acquisto e responsabilità delle marche: il 74% dei consumatori italiani opta per aziende che si impegnano con un obiettivo di interesse comune, il 63% consiglia i marchi con un ruolo sociale, il 46% è disposto a pagare di più, il 55% ambirebbe a lavorare in realtà con uno scopo riconosciuto.
Ma attenzione. Meno del 40% degli italiani dice di conoscere quelle che operano con un ruolo sociale. E c’è anche scetticismo sulle buone intenzioni sbandierate nella campagne marketing che si stanno moltiplicando: più di 6 consumatori su 10 pensano che i brand associno la loro immagine a quelle di obiettivi di interesse comune solo per rafforzare il business.
L’incoerenza costa cara
Così le narrazioni non coerenti con le azioni vengono sanzionate dai cittadini-consumatori, pronti a punire coloro che non perseguono coi fatti il purpose dichiarato: più di 1 consumatore su 2 smetterebbe di acquistarne i prodotti definitivamente se scoprisse l’incoerenza.
«Non è facile e scontato per un’azienda scoprire o riscoprire il proprio purpose, generando quindi vantaggi non solo al proprio azionista, ma a tutta la catena degli stakeholder — aggiunge Moriconi —. Ma proprio per questo rappresenta una grande opportunità anche per far amare di più alle persone il proprio lavoro. Perché se sei in grado di mostrare l’impatto che i tuoi servizi hanno non solo sul business, ma sulla comunità e sul pianeta, diventi attrattivo. Questo in fondo rappresenta un nuovo modo di pensare il lavoro».
Più consapevole e meno disincantato, si potrebbe dire: questo l’identikit del consumatore contemporaneo, che oggi sceglie non più un singolo prodotto o servizio, ma i valori che la marca incarna in tutto il suo percorso. Così alla fine ad uscire meglio dall’indagine sono quei brand familiari, che operano in distretti circoscritti. Radici ben salde sul territorio e business mondiali. Perché piccolo è meglio. D’altronde emerge una maggiore credibilità verso quelle imprese a guida familiare. Il 46% dei consumatori si fidano di loro, rispetto al 40% legato alle multinazionali estere. «Oggi la gente non compra ciò che fai, ma perché e soprattutto come lo fai», ha ricordato su Forbes Simon Sineck, saggista inglese e autore di best seller su marketing e leadership. Ma occhio: negli anni dell’iperconnessione l’incoerenza tra azioni e narrazioni la si paga a caro prezzo.
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