I demagoghi della nazione
di Alberto Mingardi
5' di lettura
A leggere i giornali, ogni tanto sembra che il protezionismo l’abbia inventato Donald Trump. Nel 1776, proprio l’anno in cui gli Stati Uniti dichiararono la propria indipendenza, Adam Smith spiegava che «nulla può essere più assurdo di questa dottrina della bilancia commerciale». Tutti noi abbiamo un deficit di bilancia commerciale con il nostro fruttivendolo o il nostro macellaio: eppure non ce ne preoccupiamo. Quando si discute di Paesi, scatta inevitabilmente la contrapposizione fra un noi e un loro, in una specie di campionato che non finisce mai. Il “noi” e il “loro” dei demagoghi che promettono “protezione” (strana idea, proteggerci da chi vuole venderci beni e servizi a prezzo più basso) coincidono grosso modo con la “Nazione” da una parte e il resto del mondo dall’altra. In realtà, nella trama complessa di dazi e barriere d’altro tipo, i “protetti” sono molto spesso un gruppo dai confini meglio definiti. Come spiegava Pareto, «un provvedimento protezionista procaccia grossi guadagni a pochi individui, e procaccia a moltissimi consumatori un lieve danno ciascuno».
Il vantaggio di studiare la storia del protezionismo americano, che precede di 230 anni l’elezione di Trump, è che questi beneficiari sono geograficamente concentrati. La politica doganale americana, spiega Douglas Irwin nel suo mastodontico Clashing over Commerce. A History of US Trade Policy, è stata mossa da tre grandi obiettivi e ha conosciuto tre grandi fasi. I tre obiettivi sono le “tre R”: revenues, restriction e reciprocity. Entrate per il governo federale (fino a inizio Novecento, i dazi doganali erano una delle poche strategie efficaci per sostenere il bilancio pubblico), restrizione delle importazioni (per aiutare i produttori nazionali) e infine reciprocità, aprire i mercati per guadagnarne di nuovi alle proprie imprese. La preoccupazione del primo tipo condiziona il periodo che va dall’Indipendenza alla guerra civile, la volontà di sostenere l’industria nazionale è la passione predominante fra la vittoria dei nordisti e la grande depressione. La questione della “reciprocità” domina gli anni a noi più prossimi.
Negli Stati Uniti, «le diverse parti del Paese si specializzano in differenti attività economiche, che possono rimanere nella medesima località per decenni, se non per secoli. Per più di duecento anni il cotone è stato prodotto nel Mississippi, il tabacco nel Kentucky e in North Carolina, l’acciaio in Pennsylvania e così via».
I governi possono provare a condizionare gli scambi commerciali tassando o sussidiando le esportazioni, tassando o sussidiando le importazioni. La Costituzione americana proibisce esplicitamente le imposte sulle esportazioni e, per ovvi motivi, è raro che gli Stati sussidino le importazioni. La storia che Irwin racconta ha dunque a che fare con sussidi alle esportazioni e tasse sulle importazioni, variamente utilizzati, gli uni e le altre, per far pendere il piatto di quella bilancia che tanto irritava Adam Smith.
«Per generalizzare, i produttori che devono affrontare la concorrenza dall’estero desiderano dazi elevati, mentre i produttori che esportano verso mercati stranieri vogliono dazi più bassi sulle importazioni».
Le fazioni in lotta, come quasi sempre nella storia americana, corrispondono a grandi linee al Sud e al Nord. Il primo vendeva materie prime e comprava manufatti, il secondo faceva l’esatto contrario. Questa differenza è stata straordinariamente durevole. Nel secondo Novecento, l’orientamento dei partiti rispetto allo scambio internazionale cambia. I repubblicani, che erano stati tradizionalmente il partito dei dazi, diventano liberoscambisti al punto che nel 1988, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Ronald Reagan si spinge a immaginare «il giorno in cui il libero flusso di scambi, dall’estremità della Terra del Fuoco al Circolo Polare Artico, unirà i popoli dell’emisfero occidentale con legami di scambi reciprocamente vantaggiosi». Lì per lì il progetto non piacque a molti Paesi latinoamericani, dove le correnti marxiste erano ancora molto forti. Poi l’ideologia li lasciò orfani. Intanto il successore di Reagan, George H.W. Bush, cucinava il “Nafta”, l’accordo di scambio fra Canada, Usa e Messico, poi ratificato sotto Bill Clinton. Aveva contato la forze delle idee e dei convincimenti personali, ma anche il gioco del consenso: stava prendendo forma l’attuale “Red America”, concentrata negli stati centrali e del Sud, mentre le vecchie roccaforti delle coste passavano ai democratici.
James Madison aveva dedicato il decimo articolo del Federalist alle fazioni, alla difficoltà di conciliare «gli interessi dei proprietari agrari, quelli degli industriali, dei commercianti, dei possessori di capitali liquidi». Egli prevedeva che la forza degli interessi sarebbe andata crescendo con l’andar del tempo. E così è stato.
Nel 1930, la tariffa Hawley-Smoot passò perché la resistenza dei vecchi interessi liberoscambisti era del tutto disarmata. I «pochi individui» cui il protezionismo procaccia lauti guadagni erano «in grado di mantenere a Washington un grande ed efficiente contingente di lobbisti». Sembra dunque che il maggiore attivismo del governo e la crescente democratizzazione avvantaggiassero i protezionisti. Ma i dazi più elevati provocarono secche reazioni da parte di altri Paesi, che erano nella temperie degli anni Trenta. Il protezionismo di Hawley e Smoot è stato tacciato, forse anche con qualche esagerazione, di esacerbare la Grande Depressione. E un paziente democratico liberoscambista, Cordell Hull, fu dopo la guerra il costruttore del nuovo ordine multilaterale.
Oggi una divisione del lavoro internazionalmente più ramificata che in passato rende più difficile capire che cosa sia una merce “americana”. Eppure il protezionismo non è passato di moda. Ricorda Irwin che George W. Bush rispose allo stallo della Wto con una sequela di trattati multi-laterali, stremando l’interesse parlamentare per tali questioni. Obama arriva alla Presidenza ben contento di archiviare quelle iniziative e si converte agli sfortunati trattati transatlantico e asiatico solo quando i Repubblicani espugnano il Congresso, per cercare un terreno comune.
E ora, con Trump? Per Irwin, «siccome i cambiamenti nella politica commerciale suscitano sempre controversie interne, bisogna dare al Congresso un motivo molto convincente per attivarsi»: sia per ridurre che per alzare i dazi. Il problema vero è che negli ultimi anni è andato aumentando il peso delle barriere non tariffarie: l’uso della regolamentazione a fini protezionistici indebolisce, ovunque nel mondo, la fiducia negli accordi multilaterali. E siccome la WTO è un’organizzazione “debole”, che agisce solo su impulso degli Stati che ne fanno parte, il rischio è quello di una lungo galleggiare. Trump o non Trump, la lezione di questo libro, un autentico capolavoro, di Douglas Irwin è che la politica commerciale è politica. Per comprenderla bisogna dissipare le cortine fumogene e ricostruire l’incastro degli interessi.
loading...