Interventi

I figli di papà facciano i bravi (azionisti)

Chi eredita un’azienda deve imparare a ragionare da socio più che da ceo

di Giovanni TAmburi

(AdobeStock)

4' di lettura

Le aziende delle famiglie imprenditoriali vanno mediamente meglio delle altre, in tutto il mondo, questo è un fatto incontrovertibile e ampiamente dimostrato. Per cui nella famiglia intesa come motore di un’impresa c’è un valore aggiunto, c’è un quid in più che va tenuto presente. A fronte di ciò però si stagliano potenti tre elementi, di fondamentale importanza:

1. La famiglia di imprenditori, specie se di successo, trasmette presunzione, sicurezza in sé stessi, talvolta un filo di arroganza;

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2. Le famiglie crescono e pertanto nell’individuare gli eredi da porre al timone ci sono temi banalmente numerici, oltre a quelli fondati sulle competenze dei singoli, competenze peraltro non sempre – anzi quasi mai – facilmente oggettivabili;

3. Il capostipite (fondatore o sviluppatore rilevante) ha spesso un carattere forte, difficile, dominante e questo dal punto di vista aziendale spesso è un vantaggio, ma altrettanto spesso in un ambito familiare schiaccia, comprime, in ogni caso condiziona molto le possibilità dei figli di emergere, spesso anche semplicemente di “dire la loro”.

Sono tre ostacoli pazzeschi. E da questi bisogna partire per cercare di rendere più logico, più applicabile ogni ragionamento sul tema dei “figli di papà”. Definizione non bella, di per sé viziata di negativo che, da quando la sento pronunciare, abbino a una sicura accezione anti-professionale.

Però, dato che le aziende familiari sono mediamente più profittevoli delle public company, delle società troppo piene di quei manager autoreferenziali mercenari, freddi e distaccati che spesso vengono mitizzati, a fronte di questi tre pilastri va capito come far tirare fuori quella “pancia” che spinge a volte più della testa, quella passione che non solo per persone come Steve Jobs diventa e deve diventare un mantra. La passione è tutto, nella vita, qualsiasi cosa si faccia.

Una volta si parlava del forte condizionamento del “nome in ditta”. È un elemento molto importante perché quel pezzo di orgoglio, di onore, di voglia di non sfigurare, di fare meglio, di non arrendersi, di tentarle tutte, che hanno molti imprenditori, anche di seconda e terza generazione, ha un valore immenso. Spesso più della competenza allo stato puro. Il più grande manager che mi sia capitato di conoscere – di certo uno dei migliori che sia esistito al mondo, Sergio Marchionne – ha ribaltato in pochi anni credenze e talvolta convinzioni del tutto infondate – e assai spesso imbecilli – su un’azienda familiare apparentemente bloccata, piena di vincoli, incapace di creare valore, ma che in realtà aveva dentro di sé una forza immensa. La lezione è che se si è bravi si riesce a fare qualunque cosa. Per cui i figli di papà devono essere messi in condizioni di “essere bravi”. Di diventare bravi, anche se per fare questo a volte la prima cosa è lasciarli fuori azienda.

Se posso però aggiungere un tassello a quella tipica impostazione italiana che sembra vedere i “figli di papà” o imprenditori oppure semplici gestori delle loro fortune patrimoniali, mi pare doveroso aggiungere il fatto che la maggiore attenzione, la priorità che un padre imprenditore debba avere è quella di formare i propri figli a fare gli azionisti, i soci. Di ragionare semmai da consiglieri di amministrazione, non necessariamente da amministratori delegati in pectore. L’individualismo italiano ha generato tantissimi piccoli imprenditori, ma la notevole ricchezza media degli imprenditori nostrani ha impedito che si generasse un mercato dei capitali degno dello standing industriale del paese.

Insegniamo ai nostri figli a fare i soci, prima di ogni altra cosa. Insegniamo a delegare e a dare gli indirizzi strategici più che le soluzioni, a stare in cabina di regia, tenendo conto di quelli che sono gli obiettivi della famiglia, piuttosto che pensare di saper o poter fare delle cose su cui altri hanno più competenze.

Tutti danno grandi meriti a Marchionne per come ha risollevato Fca ed è giustissimo, ma quanti hanno finora avuto la lucidità di dare a John Elkann il merito del coraggio nel fare l’operazione Chrysler, nel seguire Sergio sugli enormi investimenti in un gruppo che fino a poco prima cercava, da anni, di vivere di rendita sulle Panda e sulla benevolenza delle banche? Oggi John Elkann è ancor più forte, anche come imprenditore.

Se pertanto gli imprenditori italiani avessero la capacità di non pressare troppo i rispettivi figli, se evitassero di caricarli – a partire dal nome, che se già è quello del padre o del nonno diventa un macigno da cui è molto difficile staccarsi – di responsabilità dalla nascita e se poi avessero la freddezza di saperne soppesare le competenze psicologiche, tecniche, di regia, di impostazione e controllo, saremmo un Paese migliore. Un “figlio di papà” che sia comunque un bravo azionista è già molto e non può che partire da lì il percorso per capire chi potrà essere il miglior amministratore delegato.

Il testo è uno stralcio del contributo
dell’autore al libro di Bertoldi e Ferrando

Riproduzione riservata ©

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