I gilet gialli, la protesta e la sindrome dei messaggi positivi
di Vittorio Pelligra
5' di lettura
Aprendo il loro profilo Facebook, in quelle mattine del gennaio 2012, niente avrebbe potuto far intuire ai settecentomila utenti coinvolti, quello che stava succedendo: erano stati arruolati, a loro insaputa, in un grande esperimento progettato per verificare l'ipotesi del contagio emotivo. Attraverso la manipolazione dell'algoritmo che su Facebook determina i contenuti dei nostri newsfeed, ad alcuni dei partecipanti, scelti casualmente, vennero presentati nella settimana tra l'11 e il 18 gennaio del 2012, un numero più elevato del solito di post contenenti messaggi positivi; ad un altro gruppo, invece, venne fatta visualizzare una serie insolitamente elevata di post contenenti messaggi negativi. Confrontando i circa tre milioni di messaggi prodotti in quella settimana da questi ignari utenti, gli autori dello studio (Kramera, Guillory e Hancock, Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks. PNAS, 22 luglio 2014) dimostrarono la possibilità di un effettivo contagio emotivo su larga scala attraverso l'uso dei social network.
L'esposizione a messaggi negativi aveva suscitato reazioni negative, mentre la presenza di messaggi positivi aveva prodotto risposte positive. Scrissero a conclusione del saggio: “I messaggi online influenzano le nostre emozioni le quali, a loro volta, possono modificare i nostri comportamenti reali, fuori dalla rete”. Lo studio fece scalpore per la spregiudicatezza della sua metodologia, fino al punto che anche la prestigiosa rivista che lo ha pubblicato, ha successivamente preso le distanze, sottolineando il livello insufficiente degli standard etici e alla gestione della privacy degli autori della ricerca. Eppure, al di là delle critiche ricevute, lo studio dimostra inequivocabilmente non solo che attraverso la manipolazione di messaggi online è possibile produrre un contagio emotivo, un'ondata di ottimismo o pessimismo, per esempio, e attivare, in questo modo, modificazioni comportamentali, ma come questo tipo di manipolazioni siano fattibili ad un costo estremamente basso e attraverso il coinvolgimento di un numero limitatissimo di persone.
Veniamo all'oggi: la rivolta dei “gilet gialli” ha rappresentato nelle ultime settimane un fenomeno esplosivo, in Francia e non solo, imprevisto e per molti analisti, sorprendente: decine di migliaia di manifestanti, un movimento senza capi, totalmente auto-organizzato, eterogeneo, nato dal basso, che pure è stato in grado di bloccare un'intera nazione, di paralizzare la sua capitale e mettere sotto scacco il suo Presidente. Da dove vengono tutte queste persone? Come si sono conosciute, ritrovate d'accordo e organizzate? Come si spiega la dinamica “esplosiva” e una tale, miracolosa, capacità di aggregazione del consenso da parte di un movimento appena nato e non strutturato come quello dei “gilet gialli”? Un concetto chiave, in questo senso, può aiutarci a comprendere, è quello di “ignoranza pluralistica”. La maggioranza dei membri di un certo gruppo sono a favore di una certa posizione, una certa politica o una certa visione del mondo, ma, allo stesso tempo pensano che tale visione appartenga solo ad una minoranza. Ci sono situazioni, cioè, ci dice l'ignoranza pluralistica, dove tutti la pensano allo stesso modo ma non lo sanno e chi la pensa diversamente, pur essendo in minoranza, prevale. Se la situazione di partenza è questa, allora basta anche un piccolo shock, un segnale, un gesto a far scattare la scintilla della coscienza comune e a rendere consapevole la maggioranza di essere maggioranza. Il canto dei soldati tedeschi durante la tregua di Natale del 1914, l'arresto di Rosa Parks e le rivendicazioni anti-segregazioniste negli Stati Uniti del Sud, la falsa notizia della morte di uno studente durante la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, il suicidio di Mohamed Bouazizi e la rivolta dei gelsomini in Tunisia, sono stati tutti “interrutori” capaci di far riconoscere a tanti di essere “tanti”. Nel caso dei gilet gialli l'interruttore è stata la petizione di Priscilla Ludowsky contro il caro carburante. Un evento “focale” che ha consentito al malcontento, rendendolo manifesto agli occhi dei più, di addensarsi e di coordinarsi. La scoperta delle proporzioni di questo malcontento ha finito poi per ingigantirlo ulteriormente e renderlo esplosivo.
Oggi, però, c'è una novità, una radicale differenza, che distingue questo movimento da quelli precedenti: la presenza di internet; le sue dinamiche producono due effetti inediti: innanzitutto la trasmissione delle informazioni è oggi infinitamente più veloce e meno costosa rispetto a quando il web era meno esteso e diffuso e, in secondo luogo, le stesse informazioni possono essere oggi molto più facilmente ed efficacemente usate per orientare, influenzare e manipolare l'opinione pubblica. L'esperimento del 2012 di cui abbiamo parlato in apertura non è che un esempio palese del potenziale in gioco. Il business di Cambridge Analytica, fondata, tra gli altri, da quello stesso Steve Bannon, ex consigliere di Trump, che oggi gira l'Europa per costruire un movimento di opinione sovranista, un tetto comune per tutti i populisti europei, del resto era fondato su questa possibilità. Da una parte è facilissimo individuare le tipologie di utenti sulle quali costruire i messaggi in modo da renderli più persuasivi. Sono gli utenti stessi, infatti, che durante la navigazione, rivelano le loro caratteristiche, lasciano in ogni dove la loro “impronta digitale virtuale” (digital footprint). I post a cui associo un like, i twitt the rilancio, i gruppi a cui mi iscrivono, definiscono in modo via via più dettagliato i tratti della mia personalità, i miei orientamenti religiosi, sessuali e politici, i gusti artistici, le letture, le amicizie. Sulla base di queste informazioni diventa poi fin troppo facile farci giungere messaggi calibrati, costruiti su misura per me e per quelli molto simili a me.
Poi ci sono i canali di diffusione. Girano in rete eserciti di “troll” e di “bot”: i primi sono profili fasulli, gestiti da abili programmatori, utilizzati per diffondere informazioni false o tendenziose, organizzare eventi, coagulare consenso o dissenso a seconda del caso. Poi ci sono i “bot”, programmi informatici pensati per interagire come se fossero utenti umani, commentando, criticando, assecondando e diffondendo certe notizie piuttosto che altre. Questi canali creano veri e propri bombardamenti informativi su bersagli precisi che hanno l'impressione di ricevere notizie e informazioni concordanti da fonti differenti. Uno studio appena pubblicato (Enke e Zimmermann, 2018. Correlation Neglect in Belief Formation, Review of Economic Studies), ha dimostrato che quando riceviamo due o più notizie che provengono da diverse fonti ma hanno una comune origine, tendiamo a non vedere questa correlazione e ad attribuire, così, a queste notizie un peso sproporzionatamente elevato.
La Rete è il luogo ideale dove sfruttare questo nostro modo, fallace, di ragionare; su larga scala. Il Commissario europeo per il mercato unico digitale, Andrus Ansip, ha recentemente rivelato che solo la Russia investe più di un miliardo di euro, ogni anno, a sostegno della disinformazione. L'Internet Research Agency di San Pietroburgo, un ente implicato nello scandalo del Russiagate e significativamente rinominato la “fabbrica dei troll”, impiega mille dipendenti a tempo pieno.
Non sorprende, quindi, che i servizi di sicurezza francesi abbiano intravisto lo zampino di Mosca dietro l'esplosione delle proteste di piazza dei gilet gialli. Il Times di Londra ha dato conto, qualche giorno fa, di una analisi dell'intelligence secondo cui migliaia di accounts legati alla Russia hanno operato per amplificare le proteste di piazza delle settimane scorse.
Queste influenze inquinano in maniera pesante il discorso pubblico e rischiano di condizionare indebitamente l'orientamento dei cittadini anche in Italia. Alla vigilia di importanti tornate elettorali, sarebbe utile che i nostri politici, soprattutto quelli più “social”, facessero chiarezza a riguardo, per esempio impegnandosi a ripulire i loro account da follower fasulli, troll e bot, del resto abbastanza facilmente individuabili dai loro social media manager. Sarebbe un segnale importante, l'adesione esplicita alle regole scritte e non scritte della sana dialettica politica, ma anche un segno di rispetto verso gli elettori. Soprattutto da chi ricopre cariche istituzionali è lecito e doveroso chiedere trasparenza: sui conti, nella vita e anche sul web. Ci aspetteremmo, per questo, la rinuncia agli aiutini informatici, alle spintarelle virtuali e agli strilloni robot. Vorremmo sentire allora un forte, chiaro e condiviso “io non baro”.
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