I giovani economisti italiani vanno lontano
di Andrea Goldstein
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Nel 1990, dopo che l'Economist aveva citato Alberto Alesina tra gli economisti quarantenni che avrebbero prima o poi vinto il Nobel, Ricardo Franco Levi fece sul Corriere della Sera il ritratto dei dieci economisti italiani più promettenti, a partire da Francesco Giavazzi e Ignazio Visco. Tre decenni dopo, e a due giorni dall'assegnazione del Nobel, la presenza italiana nella economics globale è consolidata, soprattutto all'estero. Per non citare che qualche nome, oltreoceano i più celebri sono Enrico Moretti e Luigi Zingales, che devono la loro notorietà ad articoli scientifici, ma anche a saggi per il grande pubblico. Tra gli italiani d'America, sono conosciuti in patria quelli che scrivono sui giornali come Alberto Bisin, mentre Michele Boldrin ha 50mila follower su Twitter. E poi a Londra ci sono Mariana Mazzucato e Lucrezia Reichlin.
Meno noti sono i “nuovi quarantenni”. Per identificarli – anche se questo resta un gioco, non me ne vogliano gli esclusi – bisogna spulciare le riviste più prestigiose della disciplina: American Economic Review, Econometrica, Quarterly Journal of Economics e Journal of Political Economy.Nel 1990, ci pubblicarono solo tre italiani: Alesina, Alessandra Casella e Tullio Jappelli (oltre ad Antonio Guccione, che però era emigrato in Canada negli anni 70). Nei primi sette mesi del 2020, sono stati addirittura 39, di cui vari due volte. Certo, nel frattempo l'Aer e il Jpe hanno raddoppiato la frequenza ed è diventato normale per un articolo di economia avere co-autori multipli. Ma la progressione testimonia di un salto quantico nella produzione scientifica, tanto più che si accompagna alla presenza di Alessandro Lizzeri (Princeton) e di Oriana Bandiera (London School of Economics) nei comitati editoriali di Aer ed Econometrica. I talenti della Generazione Y sono 21 (in realtà molti di più, che sui top journal hanno pubblicato negli scorsi anni). Più uomini, ma pur sempre sette donne, tra cui Rossella Calvi di Rice e Matilde Bombardini di Berkeley.
Esaminando il percorso di studi in Italia, predomina la Bocconi (nove lauree), seguita da Torino con quattro, ma c'è spazio anche per un ateneo giovane come Milano Bicocca, dove ha conseguito il dottorato Tiziano Ropele di Banca d'Italia. Uno dei quattro “italiani”, dato che la stragrande maggioranza (14) insegna negli Stati Uniti, cui va aggiunto Davide Malacrino del Fondo monetario internazionale. Di cosa si occupano questi cervelli? Di tutto, in contrasto con la generazione del 1990 che era focalizzata sui temi macro. Che interessano tuttora Alessandro Dovis di Princeton, così come di empirics of growth si occupano Jacopo Ponticelli e Raffaella Sadun. Andrea Tesei invece analizza gli effetti della liberalizzazione della telefonia sulla mobilizzazione politica.Specialisti di organizzazione industriale sono Giulia Brancaccio a Cornell, Daniele Condorelli a Warwick e Jacopo Perego a Columbia, mentre orientati alla teoria sono i torinesi Pietro Ortoleva di Princeton e Luciano Pomatto del Caltech. Luca Braghieri, dopo Harvard e Zurigo, ora è a Stanford per il PhD e ha già pubblicato un paper sugli effetti dei social media.
Di salute e società si occupano Pietro Biroli, che analizza la depressione post-parto, ed Edoardo Ciscato, specialista di family economics a Lovanio. Allieva di Eliana La Ferrara è invece Lucia Corno, docente in Cattolica e direttrice del Laboratory for Effective Antipoverty Policies della Bocconi.
A cosa serve tanta eccellenza? L'accademia italiana, spesso accusata di essere impermeabile agli innesti esterni, si sta dimostrando attenta alle opportunità aperte da questo bacino di talenti. Dopo la Bocconi, che lo frequenta da vent'anni e ha reclutato Francesco Decarolis, sono vari gli atenei statali, per esempio Bologna, che partecipano al Jobs market, il calciomercato dei giovani economisti. Proporre salari competitivi con l'Ivy League è difficile, ma ci sono anche le eccellenze nazionali come Margherita Fort, approdata sotto le due Torri dopo triennale, specialistica e dottorato a Padova. Un'altra forma per mantenere i contatti scientifici con questa diaspora è la medaglia Carlo Alberto, che ogni due anni premia il miglior economista italiano under 40. Nel 2019 è andata a Matteo Maggioni di Harvard, che collabora anche con questo giornale, e nel 2017 ad Alessandra Voena di Stanford, che ha già pubblicato tre volte sui top journal.
Più complessa la questione del policy making. C'è stata un'epoca in cui si pensava che riempire di economisti formati nelle migliori università americane le stanze dei bottoni fosse la soluzione perfetta per migliorare i fondamentali e fare le riforme. Nel 1993, Arnold Harberger scrisse un paper sull'Aer per celebrare questo “pugno di eroi” destinati guidare l'ingresso dell'America Latina nel Primer mundo. Peccato che pochi anni dopo i vari Pedro Aspe (messicano) e Domingo Cavallo (argentino) lasciarono i rispettivi Paesi sull'orlo del precipizio. L'esperienza italiana è diversa, ma non per questo molto più incoraggiante.
Certamente Mario Draghi, che compariva nella lista di Levi, ha fatto una discreta carriera dopo il ritorno in patria – e ora che ha fatto «buona impressione» magari ne farà ancora di più – ma non è da escludersi che in camera caritatis la sua opinione sia simile a quella di Vito Tanzi. L'ex alto dirigente del Fondo che, in una recente chiacchierata con Paolo Bricco, ricordando i suoi anni nel secondo governo Berlusconi concludeva che in Italia ad averla vinta sono sempre i mandarini gattopardeschi, più noti (aggiungiamo) per le aderenze politiche che per le competenze accademiche.
I millennial italiani dell'economia politica per il momento la politica economica la studiano, più che farla. Devono i loro successi alla preparazione ricevuta nelle scuole e le università italiane, oltre che alle borse di studio come la Marco Fanno. Speriamo che venga il momento in cui i loro talenti serviranno a far ripartire il Paese.
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