retribuzioni a confronto

I giovani sono pagati il 64% in meno degli over 60. E non sognano la “flessibilità”

di Alberto Magnani

(Olycom)

3' di lettura

Lo hanno ribattezzato generation gap, divario generazionale. E si riassume bene in un dato: i giovani al primo contratto sono pagati il 64,3% in meno dei colleghi a fine carriera, con una differenza di quasi 14mila euro tra gli stipendi che si possono percepire prima dei 24 anni (21.661 euro) e dai 65 anni in su (35.595 euro). Questione di scatti di anzianità e curriculum, ma non solo: i datori di lavoro tendono a pagare di meno i candidati under 30 anche a parità di requisiti, facendo leva sulla maggiore debolezza contrattuale e la difficoltà di inserirsi nel mercato del lavoro.

La ricerca
Il dato è emerso dall’ultimo «Salary outlook» di Jobpricing, una società di ricerca bergamasca specializzata in studi sulle retribuzioni. Accanto ai divari di inquadramento, area geografica e genere (le donne guadagnano 3.400 euro in meno rispetto ai colleghi uomini), si fa largo uno scarto dettato dalle anagrafe: «Gli stipendi di ingresso per i giovani sono sempre contenuti, come se fosse un favore assumerli. E quando diciamo “giovani” intendiamo anche persone di 35 anni» dice al Sole 24 Ore Mario Vavassori, presidente di Jobpricing.
Stipendi minimi in ingresso. Ma il primo contratto arriva anche a 35 anni

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LA CRESCITA DEGLI STIPENDI IN RAPPORTO ALL'ETÀ

Il gap generazionale: scarto del 64,3% tra gli stipendi degli under 24 e degli over 60. (Fonte: Jobpricing).

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L'analisi di Jobpricing evidenzia una certa regolarità nella crescita degli stipendi, con scatti all'insù a cadenza di circa 10 anni: la retribuzione annua lorda (Ral) è di 21.661 euro fino ai 24 anni, 25.464 euro dai 25 ai 34 anni, 29.452 euro dai 35 ai 44 anni, 31.506 euro dai 45 ai 54 anni, 33.482 euro dai 55 ai 64 anni e 35.595 euro dai 65 anni in su. Da un lato ci sono fattori fisiologici, come la base normativa (gli scatti di anzianità) o il rapporto naturale tra età e ruolo ricoperto in azienda: chi ha maturato una certa esperienza può ambire con più facilità a posizioni di responsabilità, e quindi a stipendi superiori.

Dall’altro c’è un fattore culturale, legato all'andamento del mercato del lavoro: le imprese pagano meno chi è più giovane e i candidati accettano la condizione, pur di confermare il proprio contratto e uscire da una spirale di rapporti atipici. Con il risultato che, a volte, si viene assunti quando non si è più «giovani» da qualche anno: «Qui parliamo di 24 anni, ma spesso si viene assunti a 30 o 35 anni – dice Vavassori – E così si ritarda tutto il meccanismo, anche a discapito dell'azienda: si perde una risorsa negli anni di maggiore produttività, assumendola come “premio” solo alla fine».

Il paradosso della “flessibilità”
Il paradosso che si crea fa sì che i rapporti flessibili finiscano per rendere molto più rigido il mercato del lavoro: una volta raggiunto il contratto a tempo indeterminato, gli under 30 tendono a stabilizzarsi anche se non sono soddisfatti di quanto viene offerto. In parte perché proprio nella fascia 25-34 anni si registra il più grosso incremento retributivo: da 21.661 euro a a 25.464 euro. Un balzo del 17,6% che, però, non deve trarre in inganno: «Lo stipendio cresce di quasi il 20% perché si parte comunque da basi minime – dice Vavassori – Più che un aumento, è una stabilizzazione. Gli scatti veri e propri arrivano con l'anzianità».

In parte perché, una volta assunti, si ha timore a cambiare impiego. Non per routine ma per l'ipotesi, realistica, di non trovare offerte più appetibili altrove e rischiare un regresso rispetto alla condizione di stabilità appena conquistata. Come spiega Vavassori, «si crea una asimmetria tra quello che è desiderato dall'azienda e dal lavoratore, spesso “costretto” a restare in una certa società per tutela di sé – dice – La flessibilità dovrebbe scattare quando si è già iniziato a lavorare, non prima».

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