I grandi leader sono quelli che rendono più forti chi li circonda
La capacità di anteporre il bene comune agli interessi personali, senza finzioni studiate a tavolino, è la prima e più importante caratteristica
di Mattia Losi
5' di lettura
La foto a corredo di questo articolo non è stata scelta a caso. Al centro, insieme al figlio Andrea e circondato dai compagni di una vita, c’è Dino Meneghin, il più grande giocatore italiano di basket di tutti i tempi. Ma soprattutto la persona in grado di incarnare il vero significato della parola leader. Un termine molto utilizzato, e spesso abusato negli ultimi tempi, che viene abbinato a una lunghissima serie di caratteristiche che lo definiscono con precisione: abilità quasi infallibili, capacità di collaborazione, empatia, integrità, non conformità, rapidità di azione, capacità di valorizzare la diversità e di cogliere l’unicità dei propri collaboratori.
Sulla leadership sono state scritte montagne di libri, elaborate centinaia di ricette diverse, proposte infinite soluzioni per arrivare a sviluppare le migliori abilità che dovrebbero portare un manager a diventare, per l’appunto, un leader. Tutte utilissime e scientificamente valide, ma destinate a scontrarsi con una realtà incontrovertibile: ci sono cose che non si imparano, perché fanno parte di quello che siamo nel nostro intimo e che non possiamo modificare. E quando ci sforziamo di farlo, risultiamo inevitabilmente falsi agli occhi di chi ci guarda: costruiti, non genuini, costretti dalle regole a fare qualcosa che, in piena libertà, non faremmo per nessun motivo.
I leader, i grandi leader, quelli veri, non sono così: hanno tutte le caratteristiche necessarie, ovviamente, e le coltivano con impegno e fatica, ma sono sempre e invariabilmente veri. Fanno quello che fanno con naturalezza, in modo spontaneo, senza calcoli opportunistici o costrizioni.
Dino Meneghin è stato un leader, un grande leader: e infatti lo è ancora oggi, quasi trent’anni dopo il suo ritiro. Meneghin è Meneghin: non “un” punto di riferimento, ma “il” punto di riferimento anche per chi è arrivato a calcare i campi da gioco dell’Nba. Amato dai compagni, rispettato dagli avversari.
Proviamo a definirne le caratteristiche, soprattutto per chi non lo conosce e non lo ha visto giocare, partendo da quello che “non” è stato: ha segnato molto ma non è stato il miglior realizzatore di sempre, c’era qualcuno che segnava più di lui. Ha preso montagne di rimbalzi, ma qualcuno è riuscito a fare meglio. Ha smistato moltissimi assist a favore dei compagni, ma anche in questo caso ci sono stati giocatori che hanno saputo superarlo in questa speciale classifica.
Eppure, se a uno qualsiasi dei suoi allenatori chiedete di indicare la squadra ideale la risposta è sempre la stessa: “Il primo è Dino Meneghin... adesso ci penso un po’ e ti dico gli altri”. Il motivo è semplice: Dino era un vincente. Il leader, il vero grande leader capace di trasformare un gruppo di giocatori in una squadra. Facendo un passo indietro, rispetto alle sue immense capacità, per mettersi al servizio dei compagni.
Arrivato in un basket dove il problema numero uno era ingaggiare un giocatore americano in grado di competere contro quelli delle squadre rivali, ha costretto intere generazioni di direttori sportivi a cercare giocatori americani in grado di competere con Dino Meneghin.
Avrebbe potuto segnare montagne di canestri, non lo ha fatto: ma ha fatto segnare montagne di canestri a chi giocava con lui, aprendogli il campo con un lavoro oscuro solo agli occhi di chi non conosce il basket. Quando all’inizio della stagione 1984/85 l’Olimpia Milano aspettava l’arrivo di una stella americana, Dino Meneghin si mise a segnare come sapeva fare. All’arrivo di Joe Barry Carrol fece senza battere ciglio un passo indietro, concedendo al nuovo arrivato la ribalta dei canestri infilati a raffica.
Avrebbe potuto prendere montagne di rimbalzi, molti di più dei tantissimi che ha preso: ma si è sempre sacrificato, tenendo lontani due avversari per volta perché i compagni potessero raccogliere il pallone in sicurezza e con poca fatica.
Prima la squadra, sempre, poi Dino Meneghin: in modo innato, naturale, senza finzioni. I suoi compagni hanno sempre saputo che potevano contare su di lui, che nel momento più difficile avrebbe preso la squadra sulle spalle, che avrebbe dato il 101% in qualsiasi situazione e in qualsiasi condizione fisica. Prima la squadra.
La singola immagine più nota del basket italiano è quella di un tuffo: che Bob McAdoo, nella gara 5 della finale scudetto 1989 tra Milano e Livorno, fece per togliere il pallone dalle mani di Tonut lanciato in contropiede. Rischiando la faccia sul parquet, come non aveva mai fatto nell’Nba: dove era stato protagonista per 14 anni vincendo per tre volte la classifica dei marcatori, due titoli e il riconoscimento di Mvp nel 1974, quando risultò anche il miglior rimbalzista. Quel tuffo era il segno di un McAdoo cambiato, nuovo e reso ancora più grande da quell’immenso compagno che gli aveva insegnato in modo silenzioso, con l’esempio quotidiano, a pensare alla squadra prima che alle statistiche personali.
Dino Meneghin ha avuto una carriera lunghissima, dal 1966 al 1994: tra Varese e Milano ha vinto 12 scudetti, sei Coppe Italia, sette Coppe dei Campioni, quattro Coppe Intercontinentali, due Coppe delle Coppe e una Coppa Korac. Con la Nazionale è stato campione d'Europa a Nantes nel 1983, con un argento olimpico a Mosca, nel 1980, e due bronzi continentali nel 1971 e 1975. È stato un avversario indomabile per intere generazioni di campioni. È stato il primo giocatore europeo a essere “chiamato” nella Nba, quando aveva appena vent'anni. Quattro anni dopo, nel 1974, furono i New York Knicks a convocarlo per un colloquio. In entrambi i casi ha rinunciato, per non perdere la possibilità di giocare con la Nazionale.
È stato eletto per due volte Mister Europa (nell'80 e nell'83) e la rivista Giganti del Basket nel 1991 lo ha scelto come miglior giocatore europeo di tutti i tempi. È stato team manager a Milano (scudetto nel 1997) e in Nazionale: abbracciando il figlio Andrea, che di quella squadra era diventato a sua volta un punto di forza, in occasione del titolo europeo del 1999. È stato, dal 2009 al 2013, presidente della Federazione Nazionale Pallacanestro.
Nel 2003, ed è l'unico giocatore italiano a cui sia stato concesso questo onore, è entrato a far parte della Hall of Fame del basket di Springfield, insieme ai mostri dell’Nba. Nel 2019 l’Olimpia Milano ha ritirato la maglia numero 11: nessuno, in futuro, potrà giocare con il suo numero.
Chiunque abbia avuto la fortuna di trascorrere qualche anno al suo fianco può vantare una lunga serie di vittorie. La maggior parte dei club italiani ed europei ha vinto meno di quanto abbia fatto lui.
I veri, grandi leader sono così: semplici, sinceri, capaci di rendere più grandi e più forti chi li circonda. Nel momento del bisogno ci sono, sempre. Danno risposte, sempre. E se sbagliano chiedono scusa, si assumono responsabilità, non le scaricano sugli altri. È inutile mettersi a sommare a tavolino una lunga teoria di caratteristiche nel tentativo di imitarli: alla fine non ci si riesce mai. Al massimo, quando va bene, si diventa capi. Ma è tutta un’altra storia.
P.S. Dino Meneghin è nato il 18 gennaio del 1950, ad Alano di Piave. Quindi, buon compleanno. Sarebbero 71: ma per tutti quelli che l’hanno visto in campo il cronometro si è fermato a quando, pensando prima di tutto ai compagni, si guadagnava con pieno merito il titolo di più grande di sempre.
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