I latinos, ecco perché potrebbero decidere il prossimo Presidente
Dei 60,6 milioni che vivono negli Stati Uniti, si stima siano 32 milioni quelli con diritto di voto. Carmelo Mesa-Lago, uno degli osservatori più prestigiosi dei rapporti fra Usa e l'America Latina, decano dell'Università di Pittsburgh, spiega come la minoranza più esposta agli attacchi di Trump potrebbe essere decisiva per determinare l’esito del voto
di Fabio Bozzato
4' di lettura
Chi tra Donald Trump e Joe Biden sarà il 46° presidente degli Stati Uniti? Il voto del 4 novembre coincide con un'emergenza globale inedita che marca i contorni di un Paese sempre più complesso e dalle contraddizioni a volte poco leggibili, in particolare per noi cittadini del Vecchio Continente. Così abbiamo chiesto ad alcuni osservatori “speciali” di restituirci la loro analisi di quello che sta accadendo per provare a comprendere ciò che è ma soprattutto ciò che sarà. Si tratta di scrittori come nel caso di Ben Lerner, di David James Poissant, di Joe R. Landslale e di David Leavitt. Di musicisti: Sufjan Stevens. Oppure di un'artista visiva qual è Martha Rosler. Alla loro voce abbiamo aggiunto i nostri approfondimenti a partire da quello sullo stato della sanità americana di Emanuele Bompan che firma anche questo pezzo sul peso nelle urne delle scelte in materia di politica ambientale. O l'analisi di un politologo di fama internazionale come Francis Fukuyama. E quella sul peso delle minoranze. Un viaggio che come tutti i viaggi è fatto di incontri e di scoperte che si aggiungono chilometro dopo chilometro. Ad ogni tappa un arricchimento.
È la comunità più contesa nella corsa elettorale americana: dei 60,6 milioni di latinos che vivono negli Stati Uniti, si stima siano 32 milioni quelli con diritto di voto. Quasi 5 milioni in più rispetto a 4 anni fa. Sono diventati la più consistente tra le minoranze del mosaico sociale statunitense. I democratici provano a far breccia sul fronte dei diritti, la vulnerabilità nei luoghi di lavoro e il limbo legale in cui, a milioni, si trovano. I repubblicani scommettono sul peso delle chiese evangeliche, vere potenze dentro la comunità ispanica, esaltando i valori più conservatori e agitando naturalmente tutti i fantasmi di quei regimi, Cuba e Venezuela per primi, da cui a frotte sono scappati.
Donald Trump ha cavalcato un paradosso. Quando ha esordito con un feroce attacco agli ispanici e ai messicani in particolare, «mai si era sentito un presidente pronunciarsi pubblicamente con un tale disprezzo. Allo stesso tempo, lui stesso addensa sugli Stati Uniti lo spettro della peggiore tradizione latinoamericana, quella dei caudillos, della democrazia trasformata in autocrazia».
È triste e arrabbiato Carmelo Mesa-Lago, uno degli osservatori più prestigiosi dei rapporti fra Usa e l'America Latina. Classe 1934, se n'è andato da Cuba nel 1962: economista, decano dell'Università di Pittsburgh, ha al suo attivo più di 90 volumi sui sistemi di welfare e di economia comparata.
Mai, come sotto la presidenza Trump, i latinos sono stati al centro del discorso pubblico. Alcune immagini sono rimaste emblematiche: il refrain del muro e gli insulti a chiunque provenisse di là dal Rio Bravo, i bambini indocumentados separati dai genitori, le carovane di migranti a piedi attraverso il Centroamerica, il dileggio verso i portoricani colpiti dall'uragano. Immagini dolorose e toni truculenti: nessuno sa come siano stati davvero digeriti dalla grande comunità latina.
Eppure, da qualunque parte gli Usa guardino sé stessi, trovano sempre un riverbero di America Latina. E allo stesso modo, qualunque paese latinoamericano deve fare i conti con gli Usa, non tanto (o non solo) per difendersi dalle zampe dell'Impero, come si diceva un tempo, ma soprattutto perché è là dove vive la diaspora della propria gente. Nel continente, la politica estera e quella domestica si sovrappongono.
I numeri impressionano: vivono negli Usa 37 milioni di origine messicana, 5,8 milioni i portoricani, quasi 2 milioni i cubani, 3 i salvadoregni, 2,2 i dominicani. California, Texas, Nevada, Colorado e Arizona sono gli Stati dove i possibili votanti ispanici faranno la differenza: per la maggior parte è una massa di lavoratori in balia della precarietà.
E ora della pandemia: «Gli ispanici e gli afroamericani si sono trovati molto più esposti della gente bianca al virus e alla morte – spiega Mesa-Lago –. Le ragioni sono ovvie: peggiori condizioni economiche, salari bassi e vulnerabili, case affollate, lavori più a rischio e difficoltà di accesso alla sanità. Le politiche dell'imbuto di Trump, largo per i più abbienti e stretto per i ceti umili, non hanno fatto che amplificare il disastro».
L'icona della latinità resta comunque la Florida, la patria degli anticastristi e il rifugio di una folla di venezuelani arrabbiati. Qui c'è l'epicentro dell'eterna saga di Cuba. Trump ha solo reso visibile quello che tutti sanno: per sessant'anni, Washington e l'Avana sembrano aver creato a propria misura un unico spazio politico ultra-conservatore, nel quale si legittimano a vicenda. «Cuba, pur soffocata dalle sanzioni e da una crisi spaventosa, si sente più a suo agio con uno come Trump - continua il professore – quattro anni fa il regime ha temuto l'Obama che parla ai giovani, che incontra i cuentapropisti, i piccoli imprenditori, e passeggia per l'Avana osannato dai cubani neri». Con Biden potrebbe cambiare il rapporto con Cuba? «Solo se conquista il Senato, sennò sarà nello stesso vicolo cieco di Obama».
Ma come si pone in tutto questo la comunità cubana? «L'ultimo sondaggio della Università internazionale della Florida mostra una spaccatura generazionale: i più anziani non vogliono avere alcun rapporto con l'isola e i più giovani chiedono un cambio e una apertura, tutti aspettano che succeda qualcosa».
L'America Latina che abita gli Usa, insomma, sembra una folla dentro un carosello che corre impazzito. I latinos hanno in mano una chiave decisiva per il loro destino, ma finiscono sempre presi di sorpresa dalle sferzate degli eventi.
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