ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùOccupazione

I manager e quel sogno di un ritorno all’era pre-Covid

Secondo un sondaggio condotto su oltre 3mila professionisti da Robert Walters, il 71% degli intervistati afferma di essere allettato dall'idea di tornare nell'azienda per cui lavorava prima dell'era Coronavirus, solo 18 mesi dopo averla lasciata

di Gianni Rusconi

(Freedomz - stock.adobe.com)

4' di lettura

Great resignation e quiet quitting? Tendenze quasi “superate”. O per meglio dire: altri modelli si stanno affacciando sul mercato del lavoro italiano, dopo che in altri Paesi hanno già trovato significativi spazi per affermarsi, complicando ulteriormente il compito dei manager Hr, già parecchio sollecitati dal processo di trasformazione irreversibile di alcune professioni, dalle nuove esigenze dei dipendenti e dagli impatti dell'avanzata progressiva dell'intelligenza artificiale.

Quello che gli addetti ai lavori chiamano “boomerang employees” è un fenomeno che interessa in modo particolare tutti quei professionisti che sono tornati a occupare (o si accingono a farlo) il posto di lavoro ricoperto prima dello scoppio della pandemia di Covid-19. Secondo un sondaggio condotto fra Regno Unito, Irlanda e Stanti Uniti su oltre 3mila professionisti da Robert Walters (multinazionale attiva nel campo della ricerca e selezione di figure di middle e senior management ed executive), il 71% degli intervistati afferma di essere allettato dall'idea di tornare nell'azienda per cui lavorava prima dell'era Coronavirus, solo 18 mesi dopo averla lasciata.

Loading...

La stessa indagine ha messo fuoco anche altri parametri alla base dei cambiamenti di scenario: a motivare il 45% dei professionisti dimessisi con il lockdown, per esempio, è stato uno stipendio più allettante, mentre nel 35% dei casi è prevalsa la voglia di cercare una cultura aziendale più allineata ai valori personali. Il 48% dei professionisti ammette inoltre che l'azienda nella quale è attualmente impiegato non soddisfi più le proprie aspettative e, di questi, uno su quattro conferma come il modello di lavoro da remoto non risulti più così attraente.

La situazione, nel suo complesso, è molto liquida e per certi versi contradditoria, dove a una certa predisposizione al tornare sui propri passi fa eco una maggiore propensione al turnover dei talenti più preparati e ricercati che – come osserva Davide Maccagni, Country Director di Robert Walters Italia – cambiano impresa ogni 6-12 mesi alla ricerca di un piccolo miglioramento salariale o di benefit, senza alcun tipo di impegno o senso di appartenenza. Quanto alla diffusione del fenomeno del “boomerang employee” in Italia, è oggettivo il fatto che il fenomeno stia gradualmente guadagnando popolarità, anche se non esistono dati specifici sulla sua effettiva penetrazione. «In generale – osserva il manager – il nostro Paese ha una cultura lavorativa tradizionalmente legata alla stabilità e alla fedeltà all'azienda, anche se negli ultimi anni si è verificato un cambiamento nel mercato del lavoro, con un aumento della mobilità professionale e una maggiore considerazione per l'acquisizione di esperienze diverse».

Il quadro descritto da Robert Walters, in definitiva, può essere così riassunto. I “boomerang employees” italiani lasciano l'azienda per svariati motivi, come la ricerca di nuove opportunità di carriera, migliori condizioni economiche e di responsabilità professionale o la volontà di acquisire competenze aggiuntive, ma sono successivamente attratti dal ritorno nell'organizzazione se si presentano ai loro occhi vantaggi quali una cultura aziendale positiva o la possibilità di sfruttare le competenze precedentemente acquisite. Non sorprende quindi che l'82% dei professionisti intervistati abbia ammesso di aver mantenuto i contatti con il precedente manager nel corso dell'ultimo anno (il 29% conferma di averlo fatto relativamente a nuove opportunità di lavoro) e che solo un professionista su cinque abbia chiuso completamente la porta al proprio ex datore di lavoro o abbia interrotto i contatti con il proprio ex responsabile.

Fa infine riflettere un ulteriore dato, che chiude idealmente il cerchio di una situazione in forte evoluzione. Ben il 44% delle figure con poteri di assunzione (profili HR e team leader) esita a riprendere un dipendente che ha lasciato l'azienda e solo un manager su cinque assicura che prenderebbe in considerazione il profilo di ritorno solo in caso di persona esemplare ed eccezionale nello svolgimento della sua professione. L'esperienza, la familiarità con i processi aziendali e il livello formativo dei lavoratori “boomerang”, come suggerisce Maccagni, possono in realtà essere un ottimo antidoto alla carenza di talenti e alla necessità di ricoprire determinate posizioni scoperte.

Da un'altra indagine condotta a livello europeo, il “Global Re:work Report 2023” di Kelly, colosso internazionale del recruitment e dell'head hunting, è invece emerso un “nuovo” cluster di lavoratori ad elevato valore aggiunto che non ha intenzione di lasciare il proprio impiego, grazie all'attenzione riservata loro dalle rispettive aziende in termine di esigenze lavorative e personali. Sono i “dedicated performer”, figure che riescono ad avere un impatto positivo sull'efficienza e produttività e che trovano nel benessere (fisico e mentale), in carichi di lavoro più gestibili, nelle prospettive di crescita professionale e nella Diversity & Inclusion i fattori che li inducono a non cambiare organizzazione. C'è, per contro, il classico rovescio della medaglia. Dei circa 4.200 lavoratori oggetto di indagine (italiani compresi), il 33% potrebbe lasciare la propria azienda nei prossimi 12 mesi alimentando di fatto una comunità di workers “instabile” che cerca maggiori tutele e soddisfazioni nell'attuale incarico e che le rispettive organizzazioni non riescono invece a garantire.

Il report evidenzia quindi in modo netto l'incapacità di alcune organizzazioni di ispirare e coinvolgere i propri lavoratori, alimentando il disinteresse per il lavoro a livelli già significativi: il 45% dei talenti europei (percentuale che vale anche per gli italiani) hanno dichiarato in tal senso come stiano fornendo solo il minimo indispensabile di ciò che il loro ruolo richiede contrattualmente, mentre solo il 35% dice di apprezzare le mansioni che svolge quotidianamente, con i lavoratori di Italia e Francia in testa alla classifica degli scontenti. Non meno preoccupante, infine, il dato che vede il 42% dei circa 1.500 manager intervistati ammettere di non riuscire a sfruttare appieno il potenziale della propria forza lavoro.

In questo scenario a luci e ombre marcato da un gap di competenze disponibili che non accenna a diminuire e da fenomeni che allontanano le persone dal posto fisso, la buona notizia arriva per l'appunto dai “dedicated performer” e dal loro attaccamento all'azienda dettato da condizioni di lavoro favorevoli. Quali? In cima alla lista delle virtù primeggiano le opportunità di sviluppo delle proprie competenze (voce citata dal 35% del campione esaminato), la progressione di carriera e un buon equilibrio tra lavoro e vita privata.


Riproduzione riservata ©

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti