teatro alla scala

«I masnadieri», il Verdi più innovativo e spregiudicato

Un libretto graffiante e spudorato. E poi il canto secondo la tradizione, ma poi sconvolto, sottolineato da accompagnamenti in orchestra spigolosi e urticanti

di Carla Moreni

Il sipario dei Masnadieri alla Scala

4' di lettura


Un libretto con oasi di linguaggio graffianti, spudorate, al di là del galateo letterario. E poi: il canto secondo la tradizione - obbligatoria, per gli operisti italiani invitati all'estero - assecondato, sì, ma poi sconvolto, sottolineato da accompagnamenti asimmetrici in orchestra, spigolosi e urticanti. E ancora quella scena finale del sogno, trasformata da ingrediente romantico in visione spaventosa, gotica, noir. Tutti questi pensieri si affollavano uscendo dai “Masnadieri” alla Scala (turno B, parecchi vuoti in platea) affidati a voci salde e diretti con soppesata misura da Michele Mariotti.

I masnadieri, Verdi a tinte fosche

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Per l'ennesima volta Verdi si conferma l'autore teatralmente più innovativo e spregiudicato. Anche in un titolo come questo, del 1847, dunque precedente la rivoluzionaria trilogia popolare. Creato per Londra, ma offuscato dall'esplosivo “Macbeth”, dello stesso anno, a Firenze, più crudo e radicale. Non facili da portare in scena, “I masnadieri”. Non a caso a Milano mancavano dal 1978. E prima di lì erano stati dati solo due volte, nel 1853 e 1862. Scansati dalle grandi voci verdiane, evitati negli anni fatidici degli anniversari biografici.

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I masnadieri, cioè le gang dell'Ottocento (raccontati da Schiller, ma evidentemente ben presenti anche nella testa del colto Maffei, autore del libretto, e fotografati con brevità spietata nei Cori) nell'opera fanno da sfondo continuo all'azione. Con quella tecnica caratteristica di Verdi, che ritaglia storie private in primo piano, mentre sullo sfondo scorre la Storia, a loro indifferente. Ma che li travolge. I due livelli sono ben evidenziati nella scena di Charles Edwards, che ambienta i quattro atti nel medesimo interno, una taverna-collegio-caserma, lignea, severa, teutonica. Sovrastata da una balconata praticabile, utile per gli interventi delle masse, e in progressiva distruzione. A pezzi dopo incendi (che fiamme!) e battaglie.

Tutto sarebbe di suo già chiaro, se il regista David McVicar - sì, quello dei meravigliosi “Troyens” degli anni d'oro, con Pappano - non volesse spiegarci con puntiglio che i masnadieri sono davvero mascalzoni, e dunque obbligati a sfasciare tavolate, ribaltandole rumorosamente a terra, a saltare come indiavolati, a farsi la doccia (nudi, certo, quando mai lavarsi vestiti?) incuranti della musica che scorre. Al loro fracasso, superfluo, perché già così ben detto in partitura, si contrappone un singolare personaggio-mimo, onnipresente, un ragazzotto tondo con sbuffante camicia bianca da eroe romantico (costumi storici di Brigitte Reifenstuel) sempre tra i piedi in ogni momento privato dei protagonisti: quando Carlo si confessa ad Amalia, lui figlio del Conte finito tra i masnadieri, o quando il cattivo, Francesco, ordisce le malefiche trame, per uccidere il padre o rubare la fidanzata al fratello.

Nello spettacolo confuso (sipario compreso, splatter, con faccione rosso-demonio tra due visi giovani) spiccano originali, splendide, le luci di Adam Silverman: con quattro fari raso terra, ai due lati palcoscenico, per effetti di profondità e ombre splendidi. Perfetti per scontornare, come in una tela di Hayez, i profili vocali dei quattro protagonisti, così diversi: lei, Amalia, ancor immersa nel belcanto e Lisette Oropesa ideale (soprattutto quando alleggerisce il vibrato stretto) perfetta nel registro etereo, nella delicata fermezza. Simbolo della fanciullezza innocente, ma anche coraggiosa, nell'affrontare per amore il lato brutale del mondo maschile che la circonda.

Certo, tanto minuta stenta nell'abbraccio (l'unico) con l'innamorato Carlo, che è il Fabio Sartori che tutti conosciamo, pasta spatolata, dizione perfetta, tenuta. E impossibile recitazione, al di fuori di se stesso. Massimo Cavalletti, il fratello cattivo, offre il meglio dove Verdi chiede canto/teatro, nelle zone al di là degli schemi, e cioè nella scena del triplice sogno, davvero ben detta. Il vecchio padre, in sedia a rotelle, è il sempre magnetico Michele Pertusi, anche lui ideale nella nuova tinta verdiana dell'uscita spettrale dalla botola-prigione: detta col fisico smangiato, immobile, ma ancora più con la voce.

Tutti stanno focalizzati sulla concertazione di Michele Mariotti. Che ha lavorato di fino, di dettagli. Che sa dominare i tempi quando scappano (il Coro, il baritono) dettando lui le condizioni. Che sa stanare minute sorprese nel tessuto dell'orchestra, con un tratto che lo caratterizza e gli dà lustro, mettendolo ben al di là dei direttori di routine, che non amano Verdi (quelli che fanno il bis del Brindisi della “Traviata” a fine opera, per intenderci). Adesso però deve osare con più coraggio: dal dettaglio andare al gran disegno, dal suono intonato alla grande frase. Creando, in espansione. Ammorbidendo in orizzontale gli accompagnamenti, che centellina perfetti, un po' freddi. Spronando all'invenzione i “soli” in orchestra, facendoli quasi uscire dalla buca. Perché Massimo Polidori suona impeccabile il gran passo della Sinfonia (scritto da Verdi per quell'Alfredo Piatti virtuoso che gli aveva soffiato il posto, all'ammissione in Conservatorio a Milano) ma potrebbe volare di più. E infatti la Sinfonia - vuoi per la regia che la disturba, vuoi per il pubblico che in questa Scala ha smarrito i codici - sfila nel silenzio, senza prendersi il solito atteso e meritato applauso.

“I masnadieri” di Verdi; direttore Michele Mariotti, regia di David McVicar; Teatro alla Scala, fino al 7 luglio

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