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I miracoli non servono, basta ridurre il cuneo fiscale

di Andrea Goldstein

(Marka)

3' di lettura

Per tornare a crescere e ridurre disoccupazione e precarietà non è necessario nessun miracolo, né cadere in qualche pozione magica – l’economia in fondo è una disciplina abbastanza semplice. Basta investire con continuità in infrastrutture fisiche e immateriali, garantire la qualità delle politiche e delle istituzioni e allineare il costo dei fattori produttivi alla loro produttività. I dati preliminari dell’Istat sul Pil nel primo trimestre del 2017 certificano che sfortunatamente l’economia italiana è ancora in difficoltà e che la luce della ripresa su basi solide e ampie è sempre distante. Probabilmente perché il gap da colmare rispetto ai requisiti della crescita resta grande.

Un +0,2% nei confronti del trimestre precedente e +0,8% rispetto al primo trimestre del 2016 sono infatti risultati modesti, da tutti i punti di vista. In termini congiunturali, la crescita è molto inferiore che in Germania e nel Vecchio Continente, a dispetto della sindrome dell’eurosclerosi, il Pil sta quasi volando: secondo le stime flash di Eurostat, è cresciuto dello 0,5% nei primi tre mesi del 2017, che annualizzato equivale a pressappoco 2%. Non a caso, in termini tendenziali il divario è ancora più marcato – in particolare con la Germania, cresciuta dell’1,7%. E non va dimenticato che le prospettive apparivano più rosee a maggio 2016: nel primo trimestre dell’anno scorso il Pil aumentò dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e dell’1% nei confronti del primo trimestre del 2015. Ci sono perlomeno segnali incoraggianti che la componente nazionale della domanda sta riprendendo un po’ di smalto e che anche i servizi, sul lato dell’offerta, riacquistano tonicità.

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La litania di ciò che non funziona è lunga e ormai quasi scontata, tanto che rischia di perdere efficacia. Non ci si può però stancare di ripetere che l’Italia soffre tuttora di un grave deficit di concorrenza, che si traduce in inefficace allocazione delle risorse, insufficiente crescita dell’occupazione, permeabilità alle lobby e alla corruzione. Il presidente dell’Agcm ha ricordato ieri il percorso parlamentare (caritatevolmente definito «complesso») del disegno di legge annuale sulla concorrenza, che verrà forse approvato in una versione poco incisiva, i lacci posti alla sharing economy (a partire da Uber), le liberalizzazioni (dei servizi, del commercio, del mercato elettrico) che si infrangono contro le rocce dell’autoconservazione di gruppi d’interesse che godono di forti aderenze politiche e parlamentari. Ingenuo guardare sempre nel piatto del vicino e trovarlo più appetitoso, sbagliato non sottolineare come la credibilità politica di Emmanuel Macron si sia costruita nel 2015 in tre settimane di intenso dibattito parlamentare per difendere la legge «per la crescita, l’attività e l’uguaglianza delle chances» (versione transalpina delle lenzuolate italiane del 2006).

Siamo destinati allora come Paese a soccombere alla “vile prudenza”, ad attendere tranquillamente che il resto del mondo trovi nuove basi per la crescita, mentre da noi si cerca di far passare come market-friendly la norma anti-scorrerie sulle scalate finanziarie? Non possiamo permetterci questo lusso e ad onor del vero il rapporto Almalaurea 2017, anch’esso presentato ieri, ci restituisce un ritratto fortunatamente più incoraggiante dell’Italia. In cui gli studenti si laureano prima, diminuiscono i fuori corso, migliora la percezioni del cursus studiorum e cresce l’occupazione di chi ottiene un titolo di studio.

Non vale certo la pena fasciarsi la testa perché una parte non indifferente dei migliori laureati, per voti e regolarità degli studi, parte per l’estero. Così funziona il mondo nel XXI secolo (e a dir la verità da parecchio tempo), bisogna fare di più per attrarre equivalenti talenti dall’estero e convincere la diaspora italiana che in patria non tutto è perduto. Il dato che sì fa riflettere è però quello delle retribuzioni: cinque anni dopo la laurea magistrale, chi è emigrato guadagna in media 2.202 euro netti al mese, rispetto a 1.344 di chi è rimasto in Italia.

Cifre che rimandano al circolo vizioso tra pochi investimenti, malgrado i risparmi siano alti, e domanda interna flebile, dopo anni di vacche magre (un dato per tutti, uno dei parchi autoveicoli più vetusti in Europa). Per questo l’altro fronte cui dedicare risorse politiche ed economiche, oltre che quello della concorrenza, è la riduzione del cuneo fiscale (il quarto più ampio nell’Ocse), non solo con misure ad hoc, ma anche con la decontribuzione strutturale del costo del lavoro. Anche se le scadenze elettorali si avvicinano, bisogna agire in fretta, prima che la ripresa produttiva nel resto dell’Eurozona induca la Banca centrale europea a stringere la politica monetaria, con conseguenze ahinoi abbastanza prevedibili per l’Italia.

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