«I nostri clienti pronti a pagare il 35% in più per la nostra qualità»
Amministratrice delegata gruppo ITM
di Ilaria Vesentini
4' di lettura
«Ero destinata all’industria pesante: amo i numeri, le sfide complesse, i ruoli di comando, la cultura anglosassone meritocratica e non ho certo paura di muovermi in un mondo di soli uomini, sono cresciuta in mezzo ai maschi». Maria Cecilia La Manna di primo acchito sembra una donna d’acciaio, come quello che compone i sottocarri del gruppo ITM, che guida da 16 anni nel ruolo di amministratore delegato, dopo una laurea in Economia a Bologna e un decennio di carriera nella finanza internazionale. Ma i suoi vispi occhi chiari e la sua parlata allegra tradiscono l’esuberanza del sangue paterno siciliano mescolato a quello materno romagnolo. Un mix di energia instancabile e di appassionata dedizione al lavoro che La Manna ha irreggimentato in un controllo quasi maniacale dei numeri e dei risultati. «È grazie al mio foglio Excel di “Daily KPI” che ho portato un’azienda sull’orlo del fallimento nel 2007 a registrare nel 2022 il miglior bilancio di sempre», spiega, mostrando un A3 fitto fitto di numeri e indici che aggiorna quotidianamente.
È appagante essere al timone di un gruppo che lavora pezzi d’acciaio di centinaia di tonnellate dove il 90% sono uomini?
Io sono contenta, la mia è una storia di impegno che è stato riconosciuto e premiato dalla multinazionale americana che controlla ITM. E mi hanno sempre trattato come fossi un uomo. Sono entrata in contatto con Titan, la capogruppo, nel 1994 quando lavoravo nella divisione Transaction Services di PricewaterhouseCoopers, due anni dopo ero la controller della branch italiana con compiti di sviluppo del mercato europeo, poi Cfo a Londra della divisione europea di Titan Inc (che produce ruote e pneumatici, non sottocarri) e ho curato diversi M&A tra Germania, Asia, Sudamerica, prima di seguire la quotazione alla Borsa di Londra. Nel 2004 c’è stato lo spin-off dal gruppo di Titan Europe e inizio a negoziare l’acquisizione di ITM Italtractor, multinazionale tascabile modenese, con bond già in default e debiti con 24 banche. Mi occupo della ristrutturazione e a fine 2006, quando esce la famiglia Passini, mi ritrovo sola al comando.
È stata dura farsi valere in una undercarriage valley tutta al maschile?
Io vengo da una cultura finanziaria e di business internazionale e mi sono scontrata con l’individualismo dell’imprenditoria familiare italiana. Ma è con i risultati che ci si fa rispettare. Nel 2007 se ne erano andati tutti i dirigenti di ITM tranne i due direttori di stabilimento, ho dovuto ricostruire la squadra quasi da zero, chiudere due siti in Italia, tra cui la sede storica di Castelvetro, aprirne di nuovi all’estero e nel 2008 finalmente comincio a vedere la luce. Ed ecco che arriva il crac Lehman: in tre mesi ITM perde il 50% del fatturato. Taglio gli stock, razionalizzo la supply chain, apro la sede in Cina per avere prezzi più competitivi sulla componentistica e specializzo Italia e Spagna (dove abbiamo la più grande fonderia di acciaio d’Europa, Pyrsa) nell’heavy duty e nel mining, macchinari mastodontici e complessi. Poi ho implementato un modello di business orientato al cliente e al servizio e ho spinto molto sugli investimenti in digitalizzazione e sostenibilità. E i risultati sono arrivati, oggi siamo leader indiscussi nelle tecnologie avanzate per l’undercarriage.
Con l’acciaio che costa il doppio che in Cina ha ancora senso produrre qui?
Sì, perché i giapponesi, e non solo loro, vogliono comprare italiano e sono disposti a spendere di più per la qualità e l’innovazione dei nostri cingolati e per il servizio h24. Non competiamo certo per i costi di energia, manodopera o acciaio (noi lo paghiamo mille euro a tonnellata, perché usiamo per il 95% acciaio italiano, green, contro i 550 pagati dai cinesi), ma lo scorso anno i clienti hanno accettato aumenti dei listini anche del 35% pur di avere i nostri prodotti. Va anche detto che il 50% del costo di manutenzione di un macchinario da miniera, sottoposto a enorme usura, è legato al sottocarro e noi garantiamo le leghe di acciaio più resistenti e le più evolute soluzioni digitali e di sensoristica per monitorare la macchina ed evitare fermi produttivi. E dall’acciaio ai sensori tutto il processo è verticalizzato all’interno dell’azienda.
Quindi vi servono informatici e softwaristi non solo ingegneri meccanici…
Il tema delle competenze è oggi il più critico all’interno dell’azienda. Lavoriamo molto con le Università di Bologna e di Modena e Reggio Emilia, collaboriamo con istituti di ricerca in Spagna e Germania, ma il tema dei giovani da inserire e dei talenti da trattenere è il primo problema sulla mia scrivania. Abbiamo assunto da poco 25 ingegneri, ma ce ne servirebbero di più. Qui hanno la chance di viaggiare e lavorare all’estero, abbiamo 11 stabilimenti in giro per il mondo, e di collaborare con clienti del calibro di John Deere, Komatsu, Hitachi, Liebherr.
Nostalgia degli anni nella finanza oltremanica?
Londra resta la mia città ideale, ma sto bene qui. È l’italianità che mi rende così tosta e fa la differenza anche in ITM. Non solo per la qualità della sapienza manifatturiera ma per l’aiuto che l’Italia, nonostante tutto, ci ha sempre garantito in termini di ammortizzatori sociali, per salvaguardare maestranze e flessibilità produttiva, e nel post Covid per contenere i costi energetici. In Germania non è così. Poi ci sono tante cose che non funzionano, ma ho la fortuna di vivere una realtà aziendale americana improntata al merito, all’autonomia e alla responsabilità e viaggio molto.
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