Editoriali

I passi avanti di Maastricht e i problemi irrisolti

di Sergio Fabbrini

(EPA)

4' di lettura

Trent’anni fa, il 7 febbraio 1992, fu firmato a Maastricht, nei Paesi Bassi, un Trattato che ha cambiato la natura del processo di integrazione. Con quel Trattato, negoziato durante la fine della Guerra Fredda, fu presa la decisione di adottare una moneta comune, decisione che condurrà (nel 1999) alla formazione dell’Eurozona. Il Trattato di Maastricht ha fatto fare importanti passi in avanti, ma ha aperto problemi che non sono stati ancora risolti, sia a Bruxelles che a Roma. Quali?

Cominciamo da Bruxelles. Il Trattato di Maastricht (le cui innovazioni sono state confermate dai trattati successivi, da ultimo dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009) ha spezzato la natura unitaria del processo di integrazione. Ha confermato il carattere sovranazionale del mercato unico (la Commissione propone le leggi, il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo approvano o rifiutano, la Corte di giustizia o Cgue supervisiona), ma ha anche introdotto un nuovo metodo.

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Un metodo intergovernativo per decidere le nuove politiche entrate nell’agenda europea con la fine della Guerra Fredda. Si tratta di politiche (come la politica estera, di sicurezza, della giustizia, dell’ordine interno) che sostanziano la sovranità degli stati. Relativamente a queste politiche, le decisioni non hanno un carattere legislativo (così ridimensionando il ruolo del Parlamento europeo e della Cgue), vengono prese su impulso dei governi nazionali (piuttosto che della Commissione) e sono deliberate all’interno degli organismi in cui quei governi si coordinano (il Consiglio dei ministri e il Consiglio europeo dei capi di governo). Dopo quel Trattato, non c’è più una sola Unione, ma ce ne sono almeno due. C'è l’Unione del mercato, al cui interno la Commissione esercita un ruolo cruciale, e c’è l’Unione delle politiche strategiche, in cui il ruolo cruciale è esercitato dal Consiglio europeo. L’Eurozona combina i due metodi, con una istituzione sovranazionale, la Banca centrale europea (Bce), che ha il controllo della politica monetaria ed un’istituzione intergovernativa, il Consiglio dei ministri economico-finanziari dell’Eurozona (l’Eurogruppo), che coordina le politiche economiche e fiscali. Coordinamento, quest’ultimo, vincolato al rispetto di precisi parametri (formalizzati nel Patto di stabilità e crescita del 1994). Quei parametri (il deficit pubblico non deve superare il 3% e il debito pubblico il 60% del Pil) furono introdotti per vincolare l’azione dei governi nazionali instabili, in particolare del nostro. La grande virtù di Maastricht è stata l’integrazione monetaria, il suo grande vizio il dogmatismo dei parametri (contrastato da Guido Carli, allora nostro principale negoziatore). Il risultato fu l’istituzionalizzazione di un’Eurozona basata sulla centralizzazione amministrativa, “taglia unica per misure diverse”.

Arriviamo così a Roma. Il Trattato di Maastricht ha cambiato la struttura economico-politica della democrazia italiana. “Mani Pulite” contribuì certamente alla delegittimazione della Prima Repubblica, ma fu il contesto regolativo emerso da Maastricht che mostrò l’inadeguatezza del sistema di governo di quest’ultima. La logica distributiva alimentata dal proporzionalismo elettorale (causa di un debito pubblico in crescita, gestito attraverso periodiche svalutazioni) non era più compatibile con la nostra partecipazione all’Eurozona (basata sulla disciplina di bilancio). La logica consociativa alimentata dalla diffusione della decisione nel Parlamento (in sostituzione del governo) non era più compatibile con la nostra partecipazione alle istituzioni intergovernative. Tant’è che, proprio dopo Maastricht, si è imposta nell’agenda nazionale la riforma del nostro sistema istituzionale, così da superare l’instabilità governativa dovuta al proporzionalismo elettorale. Dopo tutto, se nelle politiche regolatorie del mercato unico ci si poteva affidare alla Commissione per supplire alla nostra debolezza decisionale, con lo sviluppo dell’Unione intergovernativa non si poteva più farlo. In quest’ultima Unione (dove si decide attraverso il coordinamento intergovernativo), se non si dispone di un governo stabile, coeso e competente, si “fa la fine del tacchino a Natale”. Eppure, nonostante i tentativi fatti, abbiamo ancora il sistema di governo della Prima Repubblica. Anzi, oggi, c’è chi vorrebbe addirittura ritornare anche al proporzionalismo elettorale della Prima Repubblica, pur in presenza di una frammentazione dei e nei partiti sconosciuta a quest’ultima. Se l’esistenza di alcuni correttivi maggioritari non riuscì a contenere le divisioni tra le venti sigle partitiche che costituirono il secondo governo Prodi (2006-2008), portando alle sue dimissioni, cosa succederebbe senza neppure quei correttivi? Privi di un sistema di governo capace di ordinare la frammentazione, e con un sistema elettorale che l’accentuerebbe, la nostra irrilevanza sarebbe inevitabile. «Don’t do stupid shit» (copyright di Barack Obama, traduzione non opportuna).

Insomma, Maastricht ha fatto fare passi in avanti, ma ha anche sollevato problemi ancora irrisolti. A Bruxelles, il problema irrisolto è una governance dell’Eurozona che ha creato divisioni e gerarchie tra gli stati membri, anche se le decisioni prese durante la pandemia (come Next Generation EU) possono avviare una soluzione a quel problema. A Roma, il problema irrisolto è un’organizzazione (governativa ed elettorale) della nostra democrazia strutturalmente inadeguata rispetto al contesto in cui operiamo. A Bruxelles occorre andare avanti, a Roma occorre (almeno) non andare indietro.

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