Il libro

I peccati di un establishment che ha smarrito i valori di una vera classe dirigente

Negli anni dopo il boom economico, le responsabilità collettive hanno ceduto il posto alle pulsioni particolari

di Antonio Galdo

4' di lettura

Da dove arriva la classe dirigente imprenditoriale e finanziaria in Italia? Con quali valori e competenze si forma? Il sociologo Nadio Delai, direttore generale del Censis dal 1984 al 1993, ha curato per otto anni il Rapporto Luiss sulla classe dirigente dove tutti gli aspetti dell’establishment sono stati esaminati in ogni dettaglio.

Una delle parti più interessanti di questo lavoro è nelle risposte che arrivano direttamente dalle persone che occupano posizioni di potere e che influenzano la società per descrivere il proprio ruolo e l’approccio giusto per conquistarlo. C’è innanzitutto una crescente sfiducia sulla retorica del merito, delle competenze, della conoscenza. Agli occhi della classe dirigente italiana ciò che veramente conta per entrare nei giri dell’establishment economico sono, nell’ordine, le relazioni (ovvero la conoscenza di persone influenti), la cooptazione, le raccomandazioni, la notorietà, la visibilità e il reddito.

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Allo stesso tempo, nella scala dei valori, la visione strategica e la capacità di anticipare e affrontare i problemi, vengono dopo l’utilitarismo, la ricerca di obiettivi e di relazioni personali, la ricchezza. Spiega Delai: «È il quadro di una classe dirigente che non ha orgoglio, senso della collettività e del bene comune. Una classe dirigente che non vuole responsabilità oltre la specifica funzione ricoperta, espressione di una “società delle conoscenze” più che di una “società della conoscenza”».

Molto prima della documentata analisi di Delai ricevetti un’interpretazione simile da Guido Carli. Era il 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino e di grandi cambiamenti in Europa: avevo scritto un libro per raccontarli attraverso il punto di osservazione delle banche nei Paesi della Comunità europea ed ero andato a trovare Carli, all’epoca ministro del Tesoro, per chiedere la sua prefazione. Il testo lo aveva convinto e mi diede tre paginette dattiloscritte con la sua firma, poi dall’Europa arrivammo a parlare dell’anomalia della classe dirigente economica italiana, che Carli considerava un nervo scoperto per la solidità del Paese.

Dal suo punto di vista la nostra fragilità era emersa con la firma, nel 1957, dei Trattati di Roma della Comunità europea, quando l’Italia si andava integrando con gli altri Paesi dell’Europa occidentale. Carli mi consegnò, con un soffio di ironia, un libricino, intitolato Intervista sul capitalismo italiano, nel quale aveva risposto alle domande di Eugenio Scalfari: «Forse all’epoca abbiamo firmato quei Trattati senza neanche ben capire che cosa avrebbero significato. Per esempio gli altri Paesi europei avevano un establishment molto solido, nel quale anche gli imprenditori facevano la loro parte, noi invece pensavamo a come nascondere la ricchezza ed evadere le tasse…». Sono andato a rileggere il testo che Carli mi regalò e ho trovato un passaggio attualissimo nella sua analisi: «Gli imprenditori italiani non hanno mai considerato lo Stato come un’organizzazione sociale di cui essi fossero direttamente responsabili, sia pure assieme agli altri gruppi sociali che compongono la comunità. In Inghilterra, come negli altri Paesi europei, dall’età vittoriana gli industriali hanno sempre considerato lo Stato come un’organizzazione politica che li riguarda direttamente. Davano i loro figli all’esercito, alla marina, all’amministrazione coloniale, alla Camera dei comuni, al governo. Non erano dei filantropi, lo sappiamo fin troppo bene, e facevano il loro mestiere e i loro interessi. Ma tra questi interessi rientrava anche un’idea di responsabilità nei confronti dello Stato, dove volevano lasciare la loro impronta».

In realtà non sono stati soltanto gli imprenditori ad allontanarsi dai ruoli della vita pubblica, per concentrarsi sulle aziende. Dopo gli anni del boom economico, con il taglio del traguardo del benessere accompagnato dal dilagare di una società di ceto medio, si è andato sempre più accentuando un fenomeno di abdicazione di quella élite, tipicamente borghese, che sente una responsabilità collettiva, se ne fa carico, e guida, sulla base di interessi generali e non solo di pulsioni particolari, l’intero sistema. Si è creato un vuoto. E interi settori dell’economia, dalle aziende alle banche, dal terziario alle professioni, non hanno più espresso classe dirigente all’altezza della funzione che le spetta, ma solo pezzi di establishment dedicati, legittimamente, al guadagno, alla carriera, al successo individuale.

L’impietoso giudizio di Giuliano Amato è una sintesi efficace del punto di crisi nel quale ancora ci troviamo: «Viviamo nel peccato originale di una borghesia che non ha riconosciuto come suo il problema dello Stato e lo ha lasciato nelle mani dei figli dei poveri».

Quando, agli inizi degli anni Novanta, è stata smantellata la grande industria pubblica, sono stati liquidati anche i luoghi privilegiati dove si formava la classe dirigente economica: i Centri studi. Racconta l’economista Giulio Sapelli, che ha lavorato nella formazione in grandi gruppi come Eni, Olivetti, UniCredit: «È stata una scelta sciagurata che ha privato l'Italia di serbatoi dove sono state allevate generazioni di dirigenti, che maturavano non solo attraverso i numeri e la teoria, ma innanzitutto con la pratica del lavoro sul campo e con una visione di lungo periodo, non circoscritta ai risultati di una trimestrale da presentare al mercato. Per il futuro, dovremmo ripartire da qui: un buon manager si forma con un mix di cultura umanistica e scientifica, e con l’attività in azienda. Oggi abbiamo troppi, inutili master, e poche letture di grandi romanzi universali».

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