I principi della guerra ammissibile secondo la nostra Costituzione
Parlare di diritto alla pace con la guerra in Ucraina in corso è una contraddizione o un appello a una rivendicazione collettiva, al momento inascoltata?
di Giovanna De Minico
3' di lettura
Parlare di diritto alla pace con la guerra in Ucraina in corso è una contraddizione o un appello a una rivendicazione collettiva, al momento inascoltata?
Prima i fatti, poi il giudizio secondo diritto.
Siamo davanti a un conflitto che non rientra nella categoria della guerra ripudiata dalla Costituzione, cioè vietata in assoluto perché divora il territorio di un altro popolo in nome di una sua pretesa egemonica. Questo divieto ha le sue radici nella condanna dell’imperialismo, nella negazione del nazionalismo egoistico, ideologie affamate di un concetto di sovranità assoluta.
Ma la stessa belligeranza ucraina non presenta neanche i tratti di una guerra obbligata, quale viene fuori da una lettura organica degli artt. 11 e 52 della Costituzione. Le disposizioni richiamate rappresentano il titolo fondativo del diritto all’autodifesa come reazione proporzionata all’ingiusta aggressione. Questo diritto ha però la sua immagine speculare nella funzione statale, a nessuno altro delegabile, di difesa dell’ordine pubblico e di protezione dell’integrità territoriale, se minacciati da attacchi interni o esterni.
Pertanto, le operazioni militari in Ucrania occupano il terreno delimitato da un lato dalla guerra vietata, dall’altro da quella dovuta; questa è la zona grigia della guerra costituzionalmente ammissibile, cioè permessa dal dettato costituzionale.
Tecnicamente c’è un vuoto normativo, un non detto del Costituente, che si presta a essere colmato dal diritto internazionale. La sua borsa degli attrezzi ci offre l’art. 51 della Carta Onu, che prevede accanto al diritto naturale alla legittima difesa, anche il soccorso collettivo in favore del terzo violato nella sua indipendenza politica. Il comune sentimento di solidarietà internazionale è la molla che fa muovere i forti in difesa dei deboli e che si completa con l’implicita intimidazione all’aggressore di non replicare in avvenire comportamenti violenti. Decidere se avvalersi di questa facoltà e in che termini non è un dovere, ma una mera facoltà, affidata alla discrezionalità dello Stato. Quanto prescritto dal diritto internazionale è in linea con il nostro art. 11 della Costituzione, che ripudia la guerra? Un verbo, ripudiare, che non tollera ma, se, eccezioni, è una chiusura netta alla violenza che sembrerebbe non aprire interstizi alla guerra ammissibile costituzionalmente. L’unica via per disegnare una misura di compatibilità è tracciata nelle parole non scritte dall’art. 11. La norma impone al decisore politico un divieto espresso, ma anche una condotta implicitamente positiva: si dovrà attivare per costruire la pace, intesa come mezzo per adempiere al divieto di abbracciare le armi.
L’osservanza stretta di questo dover consegna una patente di legittimità alla guerra difensiva a favore del terzo. Anche la Costituzione pastorale, Gaudium et Spes, del Concilio Vaticano II lo ha detto, assumendo la praticabilità e l’efficacia della pace a presupposto di liceità della difesa collettiva. Non sembra però che né i decreti-legge del Governo Draghi, né quelli del governo Meloni, siano stati emanati in estrema ratio, cioè dopo un serio tentativo di negoziato non andato a buon fine. Concludo che le nostre operazioni militari difettano della condizione essenziale di legittimità, il che le collocherebbe fuori del perimetro costituzionale. All’illegittimità sostanziale del nostro appoggio militare si aggiunge una formale, questa consegue al fatto che non si ha il coraggio di chiamare guerra ciò che guerra è. Questa falsità politica comporta il superamento disinvolto dell’art. 78 quanto ai soggetti competenti nel decidere e gestire il processo belligerante, con il consueto ricorso all’art. 77, cioè al decreto legge per le sue virtù di rimedio ordinario e di portata generale dedicato a governare l’emergenza. Saltare anche la sequenza dell’art. 78 significa scippare al Parlamento la decisione sul se e come fare una guerra per poi consegnare queste valutazioni di alta politicità al Governo, che da organo secondario diventa l’attore primario e geloso della belligeranza, non condivisa neppure col Parlamento. Quest’ultimo si accontenterà infatti di votare i due decreti legge Draghi con una sola legge di conversione, e, cosa ancora più grave, senza conoscerne il contenuto, visto che l’unica cosa in chiaro era l’omessa lista degli armamenti, girata in bianco ai successivi decreti ministeriali, mai entrati nelle aule parlamentari.
Mi chiedo perché davanti a uno stato di necessità rinunciamo al diritto alla pace, ci abituiamo alla guerra, accettiamo la consuetudine alle ingiustizie, e infine alteriamo i rapporti inter-organici, cioè creiamo le basi per una normalità anomala, a straordinarietà cessata. Ma la democrazia va difesa quando è in pericolo o solo quando le cose vanno per il giusto verso?
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