I punti deboli delle fusioni fifty-fifty
di Bernardo Bertoldi e Jérôme Couturier
4' di lettura
Era il 1998 quando Daimler definì l’acquisizione di Chrysler “Merger of Equals”. In quel momento si trattava di un’operazione che cambiava la storia delle fusioni e dell’industria dell’auto.
Era la prima fusione “globale” della storia, avveniva in un’industria estremamente competitiva e alla ricerca di economie di scala e univa due vincitori del momento: Daimler, la più rispettata casa automobilistica per tecnologia, sicurezza e capacità di progettazione, e Chrysler, la più profittevole e la prima a occupare il neonato segmento dei Suv. Fu un disastro per gestione manageriale e per distruzione di ricchezza: da allora le fusioni 50/50 sono guardate con sospetto. Sospetto che è rinato nel fine settimana quando si è iniziato a parlare di Fca e Renault.
Il motivo del fallimento di DaimlerChrysler fu l’indecisione: i tedeschi si aspettavano che gli americani continuassero a fare bene come prima, gli americani, che avevano capito il significato della campagna “Merger of equals”, aspettavano ordini. Per alcuni mesi nessuno prese decisioni, cosa che non ti puoi permettere se stai andando bene in un settore molto competitivo. Quando le cose iniziarono ad andare male, i tedeschi presero la guida di Chrysler pensando di dover imporre il loro modello manageriale senza fondere le due culture. Le due aziende non crearono evidenti vantaggi dallo stare insieme e la più debole, Chrysler, prese una via che dieci anni dopo la portò al fallimento.
Le fusioni 50/50 sono spesso la fotografia istantanea di un rapporto societario destinato a cambiare, ma è importante che tre categorie di decisioni siano prese con rapidità nell’assetto azionario esistente.
La prima, perché è vantaggioso fondersi e quale è la strategia. Nel caso Fca-Renault la fusione porta benefici comuni in termini di economie di scala e di flessibilità. Le economie di scala sono da tempo un mantra dell’industria automotive, si spalmano grandi investimenti su più volumi e si abbassa il costo unitario di prodotto. La flessibilità è invece nuova e ha a che fare con il punto di flesso in cui si trova l’industria. L’auto del futuro sarà autonoma, connessa ed elettrica, ma nessuno sa per certo come questi tre ingredienti cambieranno la struttura competitiva del settore e da quali altri settori arriveranno i nuovi concorrenti. Chi pensa di avere chiaro il futuro immobilizza risorse per essere competitivo nello scenario che ha previsto, se ci ha visto giusto sarà un precursore, se ha sbagliato avrà messo a repentaglio la propria sopravvivenza. Chi aspetta, d’altra parte, rischia di essere in ritardo spiazzato da un’accelerazione che arriva da altri settori. Il dilemma si può risolvere diventando (i più) grandi, in questo modo si può investire di più per reagire velocemente ai concorrenti, nuovi o esistenti, e si può, in parte, guidare l’evoluzione del settore. Si può quindi rimanere flessibili e non immobilizzare il proprio capitale in tecnologie che non saranno vincenti.
La seconda, quale sarà la cultura dell’azienda oggetto della fusione. Le dichiarazioni di John Elkann, che hanno richiamato il coraggio del 2009 e l’operazione Fiat-Chrysler, fanno pensare che si applicherà lo stesso modello che ha avuto successo in Fca: l’unico modo per fondere due culture è crearne una terza che, raccogliendo il meglio delle origini, guardi al futuro. Per far questo è necessario che la fusione sia senza ritorno: quando le uova sono strapazzate non si può tornare al bianco e al rosso.
La terza, quale sarà il ruolo degli azionisti. Non è tanto importante il peso dei singoli, ma il loro modo di essere azionisti: devono tutti convenire che il ruolo di un buon azionista è prendersi cura dell’azienda prima che degli interessi singoli, siano essi la ragion di Stato o il voler continuare a essere l’unico decisore per dinastia. È possibile che due o più azionisti rilevanti si trovino in disaccordo su quale sia il bene per l’azienda e questo è il motivo per cui le governance 50/50 hanno spesso orizzonti limitati entro i quali, però, vi è accordo su cosa fare. Quando, per fare un altro esempio italo-francese, Leonardo Del Vecchio e Hubert Sagnières si sono resi conto che il disaccordo degli azionisti danneggiava l’impresa hanno cercato un compromesso facendo un passo indietro in nome del bene comune. Nel caso Fca-Renault la vera domanda cui gli azionisti devono rispondere è: c’è un valore nell’unire le forze per poter affrontare con coraggio, ma in modo flessibile una trasformazione senza precedenti dell’industria automobilistica?
Questa è la stessa domanda a cui Nissan e Mitsubishi dovranno dare una risposta, se non oggi in poche settimane. Per loro si tratta di decidere se voler accedere ai benefici comuni di una fusione allargata. La loro riposta è importante non perché sia l’unica che ancora manca, ma perché la loro visione e le loro capacità possono essere un elemento chiave di quella sintesi di culture e saper fare che sarà, nel momento storico in cui l’industria stessa sarà ridefinita dalle fondamenta, la più grande azienda automobilistica del mondo.
Docente di Family Business Strategy, Università di Torino;
Docente di Business Strategy, Escp Paris
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