I requisiti obbligatori sono lauree, dottorati ed esperienze all’estero
di Carlo Carboni
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Nelle società più sviluppate e tecnologiche, la notorietà è risorsa e moneta dei poteri. È risorsa perché il potere necessita per il suo esercizio non solo dell’autorità, legittima, ma oggi più che mai, della notorietà che persuade. Parliamo dei campi della cultura, nei quali la notorietà va alle grandi star dell’arte, dello spettacolo, della comunicazione, delle accademie e dei laboratori scientifici, acquisita da quanti influenzano pensieri e comportamenti, stili e costumi nel mondo. Regno Unito, Stati Uniti e Russia, dominatori del 900, hanno una forte incidenza di top leader della cultura nel mondo. Inoltre, la notorietà, negli ambienti relazionali tecnologici di oggi, è moneta che i potenti dell’economia e della politica hanno acquisito e condividono. Per questo abbiamo scelto di studiare personaggi al top in Europa, aggiungendo ai prismi dell’autorità e della ricchezza quello della notorietà prestigiosa.
Tra i risultati, ci hanno colpito la schiacciante supremazia dei top leader europei (in specie in formazione pre-Brexit) nel panorama mondiale, la path dependency secolare segnata dai poteri dei Paesi di lingua inglese nel mondo, ma anche il deserto di donne e di giovani tra i top mondiali. A dispetto di un terzetto femminile, che di recente ha guidato l’Ue – Angela Merkel, leader indiscussa, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione e Christine Lagarde, presidente della Bce – che ci aveva lasciato immaginare una crescita del potere rosa al top, i risultati confermano, a poco più di dieci anni dalle ricerche in Luiss (2008-10), una presenza limitata di top leader donne nella geografia dei poteri europei. Le quote rosa non hanno funzionato, specie nelle reti apicali del business.
È una gerontocrazia maschile a governare il mondo e l’Europa. In casa nostra, ci siamo illusi che il ringiovanimento delle nostre élite politiche –anche se subìto a denti stretti – e i diversi destini dei passaggi imprenditoriali potessero contribuire a cambiare aria nella stanza dei bottoni. Al contrario, tra i top leader con notorietà mondiale, gli ultrasettantenni stravincono anche in Italia. L’ipotesi più convincente al proposito è che i nostri politici “giovani adulti emergenti” siano ancora lontani dal top mondiale, con curricula non sufficientemente internazionalizzati. Del resto, alla vigilia dell’elezione al Quirinale, tra le proposte in circolazione, si parla di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi, entrambi over 80, senatori a vita e di Mario Draghi, over 70, nostra punta di diamante in Europa e nel mondo. È stato fatto anche il nome di Giuliano Amato, ottantenne di grande prestigio politico. Che dire? Al centro del gioco, ci sono anziani, a dir bene, “maturi” e, tra i candidabili, l’eccezione è la “giovane” donna ministra Marta Cartabia.
Nel mondo occidentale – specie in Giappone e nel Regno Unito – i poteri si affidano all’esperienza e alla notorietà raggiunte in tarda età, come un’accumulazione di capitale relazionale e reputazionale legata al ciclo di vita o all’accesso al patriarcato di famiglie tradizionalmente potenti e note in Europa e nel mondo. La storia ci parla di giovani leader, ma più spesso ha affidato il potere agli anziani. Forse è il momento di smorzare la retorica “giovanilista” contro i poteri degli anziani e di aprire una riflessione sul reclutamento, i passaggi imprenditoriali, l’educazione e la circolazione delle nostre élite, fattore indispensabile alla democrazia quanto la mobilità sociale alla comunità nazionale.
Indaghiamo un ristretto mondo di personalità al top, che in 2 casi su 3 dispone di una laurea magistrale o di un PhD: educazione più internazionalizzazione sono prerequisiti obbligatori per accedere al flusso della circolazione delle élite. Alla fine, si ha la sensazione che quell’ispessimento politico e istituzionale dei top leader europei, dovuto, tra l’altro, a una governance multilivello (governi regionali, nazionali ed europei), abbia gemmato primi nuclei di classe dirigente di caratura europea. Tuttavia, si tratta di una leadership dimezzata poiché anche i nuovi poteri europei finiscono per tirare l’acqua al mulino nazionale da cui traggono consenso e legittimazione. La Merkel è stata leader europea, ma di un’Europa “tedesca” come scrisse Ulrich Beck (2013), attenta innanzitutto al consenso interno.
Esiste una classe dirigente europea che non sia semplice sommatoria di quelle nazionali? Il regime intergovernativo attuale, depotenziato dal potere di veto di ogni Stato membro, è forse all’origine dell’assenza di ambizioni identitarie europee traenti, che i singoli Stati non potrebbero avere se non in chiave di sovranismo europeo. Digitale, ambiente, sanità, energia, difesa: si tratta di dimensioni del sovranismo europeo che, tuttavia, richiedono una classe dirigente in grado di sfatare i tabù del coordinamento fiscale e degli investimenti condivisi per ottenere una maggior integrazione politica degli stati. Su ipotesi e problematiche come queste proseguiremo la nostra ricerca per tutto il 2022.
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