Arte

I resti vitali di Arianna Carossa

di Riccardo Barlaam

Arianna Carossa (foto Gabriele Griseri)

7' di lettura

NEW YORK - Da nove anni Arianna Carossa vive a Brooklyn, che di New York è diventato il centro più vitale per l'arte contemporanea e la scena musicale. «Un posto dove puoi stare in relazione con le cose più interessanti che stanno accadendo. Pieno di stimoli per far crescere il tuo lavoro e la tua ricerca». Genovese, anima libera e spirito inquieto, un po' Siddharta perennemente alla ricerca, Arianna ora a 46 anni e, dice, « ci sono». «Vivo a New York che dopo inizi difficili, ora sento come la mia città. Ho fatto quello che volevo».

La decisione di votarsi all’arte in realtà è arrivata da tempo, dall'adolescenza. Diverso il discorso - più complesso - quello legato alla strada da prendere (“la strada che non presi”...) , i percorsi artistici da seguire. Lì la vita e le esperienze sono state fondamentali nella sua ricerca. «Non avevo dubbi. Era quello che mi piaceva più fare, la cosa più naturale. A quindici anni quando ero ancora a Genova e vivevo con mia nonna. Coltivavo le mosche in casa sua: mi faceva fare qualsiasi cosa. Le cose più strane. Ho avuto una libertà assoluta che mi ha aiutato a scoprire quello che volevo essere: mia nonna mi ha insegnato la libertà di essere».

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Nei suoi quindici anni non c’era internet. «Ma io sognavo già di venire qui a lavorare. Andavo da Feltrinelli, a Genova, e cercavo gli indirizzi delle gallerie. Un giorno ho scritto una lettera a Leo Castelli, il gallerista di Pollock, Haring e Warhol. Così. Gli ho mandato le fotocopie dei miei lavori…”. L’ingenuità e i grandi sogni quando si dice volere è potere. «Mi ha risposto pure Castelli. Dopo un po' mi è arrivata una lettera scritta a mano da lui che diceva qualcosa del tipo: ‘Cara Arianna, grazie per la tua bella lettera. Sei un po' giovane però per venire a New York’… Mi ha consigliato di provare prima a lavorare con qualche galleria a Milano per farmi le ossa. ’E poi vieni da me’, diceva”. E tu lo hai fatto? «Sì, dopo tutti i miei bei percorsi formativi. Ho frequentato l'Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova. E poi ho continuato a Milano. Dipingevo soprattutto. Sono stati anni molto interessanti». I primi rapporti con le gallerie d'arte, le case d'asta e la scoperta di un mondo. «Si è creato un bel rapporto soprattutto con Enzo Cannaviello, il gallerista che mi seguiva. Poi ho lavorato con altri gallerie e ho fatto mostre in giro per l'Europa».

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La pittura era un territorio forse troppo stretto. «Io ho studiato pittura. Ma nella scultura mi sentivo più libera perché mi giudicavo meno… sono passata gradatamente alla pittura al modellato e non mi è venuto più di dipingere. Per anni. Ho ripreso solo l'anno scorso a dipingere in Islanda dove sono stata un mese d'estate». Paesaggi lunari, luci e aurore boreali? «No, niente affatto, in Islanda non so perché ho dipinto serpenti, solo serpenti. E non panorami come si potrebbe pensare».

La scelta materica di buttarsi sulla scultura contemporanea è coincisa con la voglia di cambiare aria. Di cercare nuovi stimoli dall’altra parte dell’Oceano, solo che nel frattempo il famoso gallerista di Warhol non c’era più, portato via dal tempo. «A un certo punto ho deciso di trasferirmi a New York perché volevo il massimo. Volevo stare in una situazione che mi permettesse di vedere le cose più interessanti, una situazione che mi permettesse di crescere il più possibile. Ed è quello che è accaduto in questa città. I primi anni sono stati un po' difficili. Ho subito cominciato a lavorare con una galleria. Ho sempre lavorato, fatto mostre sia qui che in Italia».
Senza una reale direzione sembra di intuire… «Ma, forse sì. Sino a quando a un certo punto ho vissuto un momento di crisi personale e come avviene in questi casi è stata la mia fortuna.Quando sei in un tunnel vedi solo il buio, ma in fondo al tunnel c’è sempre la luce. Io ho sentito che c'era qualcosa che non funzionava. Mi sembrava di aver abdicato ai miei sogni e di vivacchiare. Un giorno ho sognato che mi ero trasformata da una cavalletta in un falco». In che senso? Come il personaggio nella Metamorfosi di Kafka che si sveglia scarafaggio?
«Una cosa così. L'ho sognato il falco. Non so come dire. Da quel momento ho capito che non ero un artista ma una persona, prima di tutto. Che non finisci in un'opera che hai fatto ma continui. E adesso, oggi, faccio solo quello che voglio. E come se fossi entrata nel flusso».

Quello che i podisti nella corsa di resistenza chiamano il ‘flow'. Sensazione di andare, di correre veloci con naturalezza, quasi senza fatica. «Sì proprio così e faccio le cose per cui sono più felice. Per me quello che conta oggi è essere soddisfatta di quello che sto facendo. Non ho un obiettivo vero e proprio di ricerca o nella relazione. Il mio obiettivo è quello di emanciparmi da un sistema dell'arte che è schiacciante nei confronti dell'artista con dei cliché che non mi interessano più».
Che cosa vuoi dire? «Il sistema dell'arte è spesso concluso in se stesso. Il ruolo del gallerista, delle aste e dei collezionisti soffoca la figura dell'artista che in questo sistema è quasi schiacciata dalla legge di mercato e non è manco l'ultima ruota del carro». Il processo creativo che si riduce a produzione. A quante tele e quante opere riesci a fare o a vendere. «Ed è paradossale che accada questo. Il valore intrinseco dell'opera in questo schema non esiste ma viene determinato dal sistema stesso». Il gallerista, le aste. Come un po' quando si crea una propria bolla economica. Un gioco di domanda e offerta, di scoperte o presunte tali nel quale l'artista perde completamente potere.

Carossa ha ben chiaro questo problema comune a molti giovani artisti contemporanei e ha maturato una sua personale visione. «Quando tu vuoi riprenderti il tuo valore che cosa puoi fare? O ti compri la galleria oppure deve cercarti tu un committente che abbia fiducia nel tuo lavoro e nelle tue capacità, come era per i mecenati di un tempo, per avere libertà creativa. In questo senso le aziende diventano come dei moderni mecenati. «Continuo a fare mostre, ma ho cominciato anche a percorrere questa strada parallela dei “moderni mecenati”, chiamiamoli così».
«Ho iniziato con Eataly all'Osteria della Pace a South Manhattan, un happening nel quale ho trasformato il cibo che mi hanno cucinato in opere mie e l'ho fatto mangiare a tutti i miei amici. Neanche in quel caso il mercato ha preso le mie opere perché le abbiamo mangiate… (sorride mentre lo racconta Carossa). Poi ho fatto un'altra cosa per il brand di occhiali Humaneyes con giovani designer: mi hanno chiesto di realizzare con mie sculture tutta la vetrina su Madison Avenue di fronte a Missoni».

L’ultima è stata una doppia installazione con Kartell. «E poi c'è stata l'esperienza con Kartell. Io volevo fare un altro progetto con Poltrona Frau: mi era presa l'idea di costruire un vuoto nella poltrona. Poi l'ho messo da parte. Ne ho parlato con una curatrice mia amica, Anna Casotti ,ed è stata lei a combinare tutto. L'ha proposto a John Jenkin, il ceo di Kartell Usa. A lui è piaciuta l'idea e mi ha dato la disponibilità di far diventare un prodotto industriale un pezzo unico».


Il prodotto scelto per l'installazione era la sedia Venice di Philip Starck. «E' una sedia donna, semicircolare, tonda, dove ho inserito degli elementi in ceramica e altri realizzati con favo d'api». Lo sforzo è quello di accostare elementi diversi. Distanze apparenti. «Nelle mie installazioni cerco creare delle relazioni tra elementi culturalmente e strutturalmente molto diversi. Cultura, natura, industria. La sedia-prodotto industriale che poi diventa un pezzo unico. La plastica con il favo di cera d'api. La chimica con la natura. Creare relazione. Questa è una cosa quasi magica per me».
L'ultima evoluzione della ricerca di Carossa nella città capitale del capitalismo che ogni mattina trasforma il suo panorama urbano con i marciapiedi pieni di rifiuti e di scatole vuote con il simbolino blu di Amazon… è legata al superfluo, gli scarti.
«Dopo la performance a Eataly ho cominciato a lavorare sempre di più con resti organici, cose che hanno vissuto… Ma non vegetali. Non è splat. Quello che mi interessa è proprio il resto, la rivitalizzazione. E' quasi: Lazzaro cammina. Mi interessano elementi come le conchiglie. Mi interessano i pezzi». Come la canzone di De Gregori? «No. più che i pezzi i resti. Non sono malinconici. Non è morte. Non è il banchetto terminato di qualcosa. Il contrario. È il resto che io prendo e cerco di riportare a nuova vita». La pietra scartata diventata testata d'angolo.
«La mia idea è quella di continuare il mio lavoro d'artista con il museo Carlo Zauli di Faenza che è il posto migliore in Italia per la ceramica, sono straordinari. Questo è il mio lavoro normale. Poi però affiancarlo a queste situazioni di mecenatismo moderno che rivitalizzano il mio lavoro perché lasciano le porte un po' aperte alla ricerca. Per trovare strade nuove».
In Italia Carossa è molto conosciuta per i suoi lavori contemporanei con la ceramica. Questa estate produrrà i tortellini in ceramica con le signore di Faenza… L'ispirazione arriva sempre inaspettata.

«Qualche giorno fa - racconta - ho conosciuto una manager della Ferrero. Gli ho chiesto novanta chili di Nutella… Quando pensi a Ferrero pensi alla Nutella, fa parte dell'immaginario collettivo di noi italiani, Nanni Moretti davanti alla fetta di pane.A me è venuto in mente di realizzare una scultura di Nutella che tutti mangiano, che ne so... un santo con le ferite, le stigmate o una madonna che lacrima Nutella. La mettiamo in Union Square dove c'hanno il posto della Nutella ma bisogna trovare il modo con dei cucchiaini, di farlo in modo sicuro a livello igienico perché se dici che farai leccare un'opera d'arte in questo paese sono capaci di arrestarti».

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