BUSINESS E TECNOLOGIA

I robot-minatori dei big data

di Guido Romeo

(Afp)

4' di lettura

La luna di miele dell’Intelligenza artificiale (Ia) sta per finire. È questa la previsione per il 2018 dell’ultima ricerca firmata dal capo analista di Forrester Boris Evelson, insieme a Michele Goetz e Brian Hopkins. Nei prossimi mesi, sgonfiato l’hype che negli ultimi anni ha descritto l’Ia quasi come una forza soprannaturale, le aziende capiranno che investire in questo settore è in realtà impegnativo e va fatto con pianificazione. Un’epifania che però non rallenterà gli investimenti e il mercato per queste tecnologie, anzi. Più del 70% delle aziende intervistate dagli analisti ha infatti confermato che aumenterà gli investimenti su questo fronte e in particolare con applicazioni sui big data. I forecast della Idc, uno dei principali centri di analisi per il mercato Ict globale, indicano che il fatturato per i big data e i servizi di analisi abilitati dall’Ia sono destinati a crescere dai 130,1 miliardi del 2016 a oltre 203 miliardi entro il 2020 con un tasso di crescita anno cumulato di quasi il 12 per cento.

In prima fila il settore bancario, che già oggi è il primo investitore in sistemi di business analytics e che nei prossimi anni vedrà la maggiore accelerazione nelle spese per questi servizi. Un’azienda su quattro tra quelle intervistate implementerà dei bot conversazionali, in gradi di rispondere in linguaggio naturale all’utente (a voce o testualmente); una su cinque metterà in campo dei sistemi di Ia in grado di prendere decisioni e fornire istruzioni in tempo reale. «La combinazione tra grandi basi di dati anche non strutturate, come sono tipicamente i big data, e nuovi sistemi Ia porta a due conseguenze – spiega Giovanni Miragliotta, direttore dell’Osservatorio Artificial Inteligence del Politecnico di Milano – la prima è la capacità di analizzare con più agilità la grande mole di dati prodotti dai sensori che, con l’internet delle cose, stanno diventando ubiquitari. Basta pensare a cosa si può già fare oggi in un’auto a guida autonoma o in uno smart building. Se cambiano le condizioni, un sistema intelligente è in grado di adeguarsi in tempo reale riconfigurando e aggiustando le proprie funzioni. La seconda conseguenza è la delocalizzazione dell’intelligenza fuori dal cloud. Questo sarà necessario perché per un’auto a guida autonoma o un impianto, contesti dove sono richieste reazioni in frazioni di secondo, non posso permettermi ritardi di connessione al cloud che possono sopraggiungere. Questo porterà a dei sistemi più robusti e resilienti con benefici per tutte le industry e per la sicurezza dei lavoratori».

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La visione di Miragliotta, che con il suo team dell’Osservatorio meneghino sta preparando un report sul tema destinato a uscire il prossimo febbraio è che l’Ia è la nuova automazione e non va demonizzata come oggi spesso succede. «Se guardiamo alla prima automazione, quella meccanica, non è stata introdotta per tagliare posti di lavoro – osserva il ricercatore – ma per innalzare la qualità dei processi. Se, per esempio, montassimo ancora a mano i penumatici non potremmo mai raggiungere le stesse prestazioni e livelli di sicurezza. Lo stesso per molti capi di abbigliamento tecnico che hanno lavorazioni impensabili da eseguire a mano. Bisogna capire che lo sviluppo tecnologico nasce per innalzare in maniera permanente il livello dei servizi di un business. I chatbot, per esempio non nascono con la missione di svuotare i call center, ma per garantire ai propri clienti un’assistenza continua, impensabile con personale umano». I settori di applicazione dell’Ia applicata ai big data non investono però solo i business industriali e dei servizi, ma anche il mondo della pubblica amministrazione e dei servizi ai cittadini.

In questa prospettiva Agid, l’Agenzia italiana per il digitale, si è dotata da qualche mese di una taskforce che sta già lavorando a un white paper sul tema. «L’obiettivo – spiega Antonio Samaritani, direttore dell’Agenzia – è creare un’amministrazione che rende più semplice l’esperienza e l’utilizzo dei servizi digitali, diventando un “assistente” amichevole. Ci sono molti esempi: la traduzione in tempo reale di documenti per richiedenti asilo, l’uso avanzato del riconoscimento vocale per le persone con disabilità, la creazione di canali di assistenza sempre più efficaci e il presidio della cybersecurity».

La sfida di big data e Ia non è però per tutti. Chi vuole fare questo passo deve avere completato con successo la propria trasformazione digitale e lo scenario in Italia è caratterizzato da grandi eterogeneità, sia tra le aziende che tra le amministrazioni. L’altro grande punto critico è la dominanza delle multinazionali digitali, soprattutto statunitensi, come Google, Microsoft, Ibm, Facebook ed Amazon, sul fronte dello sviluppo dei sistemi di Ia che rischia di creare delle fortissime situazioni di dipendenza tecnologica. Su questo fronte l’Europa è in una posizione molto delicata. Abbiamo perso la prima ondata di Internet e dobbiamo capire se le nostre eccellenze industriali come Siemens, Bosch, Sap ed Ericsson possono ritornare leader. «Dobbiamo elaborare una strategia europea che sappia sollecitare e valorizzare il mercato all’interno di un modello ancora tutto da definire – sottolinea Samaritani - che trova un primo tassello nel nuovo regolamento europeo Gdpr (General Data Protection Regulation) sulla protezione dei dati degli utenti in vigore dal prossimo maggio».

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