Strategie di crescita / 3

I sei mesi cruciali per riformare l’Italia e contare in Europa

Riforme credibili su fisco, giustizia, concorrenza e pa sarebbero d’aiuto nelle trattative sui parametri di finanza pubblica

di Mario Baldassarri

(Adobe Stock)

3' di lettura

Con la conferma di Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi, tutti (o quasi) hanno tirato un sospiro di sollievo: i mercati, le cancellerie europee, i leader del mondo e soprattutto la stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Ma solo un sospiro purtroppo, perché il quadro tra i partiti e dentro i partiti è a dir poco frammentato e turbolento.

La premiership di Mario Draghi ne esce però rafforzata e proprio per questo, a mio parere, il presidente del Consiglio deve usare ora e subito la finestra di opportunità che ha di fronte, ma che non è più lunga di 5-6 mesi. Per di più siamo di fronte al rimbalzo dell’inflazione e agli effetti devastanti del caro energia. Nessuno può mettere il governo in crisi. In autunno invece…

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Ora, questa finestra di opportunità deve essere colta per fronteggiare subito e strutturalmente la questione-bollette, per controllare tempi e metodi dei progetti del Pnrr e per mandare subito in Parlamento le quattro riforme strutturali serie ed efficaci (Fisco-Concorrenza-Giustizia-Pubblica amministrazione). Su questo Draghi ha ora la forza per porre sacrosante questioni di fiducia senza rischiare troppo di essere… sfiduciato.

Entro il 30 aprile il governo deve presentare il Def, Documento di economia e finanza, e deve scriverci i numeri programmatici per il prossimo triennio, quindi le quantità e la qualità delle stesse riforme. Senza una precisa definizione almeno da parte del governo di tali riforme che numeri potranno essere scritti nel Def? Per questo occorre subito una agenda chiara nei contenuti e definita nei tempi.

Sul Fisco occorre varare una riforma strutturale di almeno 60 miliardi di euro, totalmente coperta da tagli agli sprechi e alle ruberie della spesa, da un drastico riordino della pioggia di tax expenditure e da un recupero vero dell’evasione fiscale basato sugli incroci delle banche dati e sul contrasto di interessi. Quaranta miliardi di riduzione fiscale potrebbero andare a lavoratori e famiglie con un’Irpef a tre aliquote e con una no-tax-area a 20mila euro per una famiglia di quattro persone. Venti miliardi andrebbero alle imprese con azzeramento dell’Irap e/o riduzione del cuneo.

Sulla Giustizia occorre introdurre la separazione delle carriere e fare una conseguente riforma del Csm, mentre sulla Concorrenza occorre aggredire le troppe e troppo profonde sacche di rendita che si annidano in ogni settore del sistema economico, soprattutto nei servizi, vedi gli extra-profitti delle compagnie di distribuzione di gas ed energia elettrica,

Sulla Pubblica amministrazione occorre introdurre un generalizzato silenzio-assenso, con verifiche di merito su quelle amministrazioni e su quei dipendenti che hanno risposto alle istanze dei cittadini con la loro immobilità alimentata dalla loro amovibilità, cioè col silenzio.

Senza queste riforme, dopo il positivo impatto dei fondi europei, la crescita italiana tornerebbe all’1% dal 2024 in poi. Con queste riforme si attesterebbe invece tra il 3 e il 4%, dando sostenibilità al debito pubblico che in rapporto al Pil scenderebbe di circa il 5% all’anno.

Fatto questo a casa nostra, possiamo allora andare con credibilità e determinazione sul tavolo europeo per discutere la ridefinizione o meno dei parametri di finanza pubblica. Perno della revisione dei vecchi parametri di Maastricht è la introduzione del parametro del deficit corrente del bilancio. Questo deve essere pari a zero. Ed eventualmente il 3% di deficit totale va assegnato esclusivamente a investimenti pubblici, meglio se certificati dalla Bce. L’avanzo/disavanzo corrente deve quindi sostituire il vecchio parametro dell’avanzo primario, privo di fondamenti teorici e di riscontri empirici tanto da aver spinto quasi tutti a tagliare gli investimenti pubblici, frenando la crescita e sostenendo un circolo vizioso dal quale il rapporto debito/Pil è aumentato invece che ridursi. L’Italia degli ultimi dieci anni è l’esempio più evidente di questo cane che si morde la coda.

L’introduzione del deficit corrente è ancora più importante della semplice esclusione degli investimenti dal calcolo del deficit totale che potrebbe andar bene se si considerassero gli investimenti lordi, ma per l’Italia andrebbe malissimo se, come già emerge dal dibattito europeo, la nota golden rule fosse riferita esclusivamente agli Investimenti netti, cioè dedotti gli ammortamenti. L’Italia infatti negli ultimi venti anni, non solo ha avuto investimenti pubblici lordi sotto il 2% del Pil, ma ha avuto investimenti netti a zero o sottozero. E allora cosa escluderemmo? Ecco allora che la domanda “dove andiamo?” ha una sola risposta: dipende da noi e da quello che facciamo… presto e bene.

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