I tre punti di svolta che attendono la nostra economia
Punti di svolta: così gli economisti chiamano situazioni in cui l’economia devia dal corso previsto e prende direzioni nuove. Sono momenti in cui chi specula può guadagnare o perdere una fortuna. Coloro che invece l’economia cercano di governarla, come i governi e le banche centrali, rischiano di commettere errori fatali.
di Ignazio Angeloni
3' di lettura
Punti di svolta: così gli economisti chiamano situazioni in cui l’economia devia dal corso previsto e prende direzioni nuove. Sono momenti in cui chi specula può guadagnare o perdere una fortuna. Coloro che invece l’economia cercano di governarla, come i governi e le banche centrali, rischiano di commettere errori fatali.
Ma possono anche, con un po’ di preveggenza e fortuna, limitare i rischi e cogliere qualche opportunità. La politica non sembra accorgersene, ma tutto fa pensare che l’Italia si trovi in uno di quei momenti. Anzi, che le svolte in questione siano tre, interconnesse e tutte gravide di rischi.
La prima svolta riguarda l’inflazione
Non il suo aumento, iniziato due anni fa, per un po’ di tempo sottovalutato ma oggi evidente a tutti. La “tassa iniqua” in un certo senso ha aiutato, svalutando parte del debito pubblico. Parliamo ora del suo calo, più recente ma ormai chiaro e, come l’aumento che l’ha preceduto, persistente. Dato l’aumento dei tassi di interesse, ci avviamo verso una situazione in cui il costo del debito pubblico in termini reali, al netto cioè dell’inflazione, torna a essere positivo. Con buona pace degli esperti che fino a poco fa prevedevano una lunga fase di indebitamento a costo zero. Due calcoli sul cosiddetto “BTP valore” emesso pochi giorni fa dal Tesoro aiutano a capire. Fra cedole e premi questo titolo rende all’investitore quasi il 4% all’anno. L’inflazione attesa, se crediamo alle previsioni Ue e nel più lungo termine all’obiettivo della banca centrale, comporta che il titolo frutterebbe l’1,3% reale, un rendimento per il sottoscrittore (e un costo per l’emittente) di tutto rispetto. Nelle stime ufficiali la crescita italiana convergerebbe nel medio termine all’1 per cento. Mettendo insieme questi due dati la sostenibilità di quel tipo di indebitamento appare quantomeno incerta.
La seconda svolta riguarda i conti pubblici
I dati sono ancora provvisori, ma la Ragioneria Generale dello Stato ci avverte che nei primi cinque mesi di quest’anno il disavanzo statale sarebbe di 82 miliardi, cifra enorme se raffrontata ai 36 dello stesso periodo del 2022. Ci sono fattori specifici, per esempio il ritardo nell’incasso dei fondi Pnrr; peraltro, poiché quei fondi tendono a non venire spesi, semmai si tratterebbe di una sottostima del fabbisogno dello scorso anno. Ma molti dei fattori che spiegano l’aumento del fabbisogno quest’anno sono di lunga durata. Per esempio, i minori profitti della banca centrale sono legati alla svolta della politica monetaria. La rivalutazione di certe componenti della spesa dipende dall’inflazione. Elementi questi che fanno ritenere che siamo in presenza di un punto di svolta anche nei saldi di bilancio. Un piccolo segnale: lo spread dei titoli pubblici sembra per ora sotto controllo, ma per la prima volta da quando l’euro esiste quello della Grecia è sceso stabilmente al di sotto del nostro. La “grande malata” degli anni della crisi secondo gli investitori sta oggi meglio dell’Italia.
Il terzo cambiamento riguarda il Pnrr
Preoccupano non solo i ritardi di attuazione; la stessa fiducia nei risultati sembra venir meno, come traspare dalle stime recenti sulla crescita economica. L’impatto positivo sulla crescita strutturale del Paese veniva stimato in origine in un intervallo fra 0,4 e 0,7% annuo; vedi documento sul Pnrr nel sito https://www.mef.gov.it/focus/Il-Piano-Nazionale-di-Ripresa-e-Resilienza-PNRR/. Nel luglio 2021, il Presidente del Consiglio Draghi auspicava addirittura un aumento di oltre l’1%, che avrebbe consentito di riassorbire il debito contratto per realizzare piano. Ora, il governo italiano e la Commissione europea stimano che l’Italia tornerà a crescere dell’1%, valore non molto diverso da quello medio del ventennio che ha preceduto la pandemia se si escludono gli anni della crisi finanziaria e dell’euro. Stiamo perdendo fiducia nei benefici del piano? Se così fosse, varrebbe forse la pena riconsiderare quanto meno la parte che comporta una massiccia assunzione di debito.
Tutto ruota intorno a un punto: la fase in cui sembrava che il debito pubblico avesse cessato di essere un problema è finita. Si va sperabilmente verso un maggiore realismo; sarà evidente a tutti che bisogna tornare responsabilmente a occuparsi del problema.
I due governi passati avevano fatto del Pnrr la chiave di volta di una strategia che doveva rendere il debito sostenibile agendo dal lato della crescita. Se quell’impostazione vacilla o si ridimensiona, non resta che affidarsi maggiormente alla costante, attenta e parsimoniosa gestione dei conti pubblici; quella che a volte viene chiamata erroneamente austerità. Per governanti che l’hanno sempre avversata, un bel contrappasso.
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