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I troppi punti deboli di un tributo nato sotto cattiva stella

La tassa sugli extraprofitti energetici

di Paolo Puri

(AdobeStock)

3' di lettura

Ci sono tributi che nascono male già dalla scelta dell’appellativo. È il caso del cosiddetto “Contributo straordinario contro il caro bollette” gravante sulle imprese del settore energetico (art. 37 del D.L. n. 21/2022) subito ridenominato “Tassa sugli extraprofitti”, evocando così quegli scenari bellici, oggi particolarmente infausti, che accompagnarono l’imposta sui profitti di guerra che colpì progressivamente – fino all’avocazione – tutti gli utili conseguiti nel primo conflitto mondiale. Poco importa che nella norma non si faccia mai riferimento al termine «profitto» che, d’altra parte, nulla avrebbe a che fare con un contributo che colpisce «l’eccedenza di valore aggiunto» fra un semestre e un altro, piuttosto che la differenza fra costi e ricavi come invece evocherebbe il concetto di profitto.

Anche il termine «contributo» che certo non vale a eliminarne la natura evidentemente tributaria (Salvini, Il Sole del 23 marzo), appare incoerente se, nella sua declinazione applicativa, non riesce a raggiungere lo scopo solidaristico del trasferimento della ricchezza prodotta dalle imprese avvantaggiate a favore dei soggetti colpiti dalla crisi energetica. Uno scollamento tra funzione e struttura del contributo che, come osservato dai tecnici del Senato, potrebbe minarne la tenuta costituzionale, indipendentemente dalla questione etimologica. È quanto rivela già la scelta dei soggetti passivi, non distinguendo i produttori di materie prime (upstream) che hanno un più ampio margine nello sfruttamento dell’aumento dei costi dai “distributori” di prodotti petroliferi (downstream) che risentono degli aumenti del costo di acquisto del prodotto venduto senza un automatico riflesso sui margini.

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Abbiamo detto della scelta di determinare il contributo come differenziale tra due saldi semestrali (riferiti al periodo ottobre 2020-marzo 2021 e quello ottobre 2021-marzo 2022) ciascuno dei quali calcolato, a sua volta, come differenza tra le operazioni attive e passive che concorrono alle liquidazioni periodiche dell’Iva, così confondendo il profitto, che evidentemente può rappresentare una ricchezza imponibile, con qualcosa che assomiglia a un margine lordo invece inespressivo di capacità contributiva. Scelta semplicistica e inidonea a operare una corretta selezione delle imprese i cui extraprofitti risalgono a una speculazione sui prezzi di vendita della materia prima (alle quali la norma sembrerebbe naturalmente destinata), rispetto a quelle capaci di ottenere analoghi differenziali in virtù di maggior efficienza e penetrazione sul mercato o dell’allargamento del perimetro frutto di aggregazioni. Ma soprattutto neanche capace di “sterilizzare” l’incremento dei quantitativi compravenduti dovuto al diverso impatto dell’utilizzo delle scorte e delle movimentazioni del magazzino (elemento estraneo alla determinazione delle liquidazioni periodiche Iva). Il criterio di determinazione del contributo sembra poi incapace di “depurare” la componente delle accise inclusa nel volume di operazioni attive delle imprese che immettono al consumo il prodotto energetico dopo averlo importato in esenzione d’imposta. Dall’altro canto la selezione dei periodi appare illogica nell’avere assunto, quale metro di confronto per l’individuazione dei profitti incrementali, il saldo Iva riferito a un semestre caratterizzato da produzioni e consumi depressi dalla pandemia. Semestre che sarebbe appropriato sostituire con uno antecedente all’ottobre 2019 pena la confusione fra la tassazione (illegittima) degli incrementi di ricavi dovuti al superamento della crisi pandemica e quella degli extraprofitti determinati dalla eventuale speculazione sui prezzi di vendita dovuta dalla guerra russo-ucraina.

Non convincono infine neppure gli strumenti indicati per misurare l’efficacia del contributo ed evitare fenomeni di traslazione sui consumatori. Il coinvolgimento dell’Antitrust appare di dubbia efficacia deterrente, peccando di genericità, laddove non chiarisce se gli strumenti di cui potrà avvalersi siano di carattere sanzionatorio o regolatorio; per altro verso, si presta a essere agevolmente aggirata nella misura in cui, esonerando dal monitoraggio dell’Antitrust le attività successive al 31 dicembre 2022, incentiva gli operatori a tentare di posticipare dopo tale data la traslazione del contributo sui consumatori finali.

Il Legislatore è ancora in tempo a porre rimedio ai molti difetti che il contributo sembra presentare evitando così – dopo la vicenda della Robin Tax – che una misura nata con intenzioni fors’anche condivisibili inneschi un nuovo “braccio di ferro” tra Stato e imprese in settori strategici per la nostra economia.

Università del Sannio

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