I versi solidali e solitari di Riccardo Bravi
In libreria “Poesie di solitudine e di rivolta” con prefazione di Umberto Piersanti, postfazione di Angelo Vannini, Arcipelago Itaca
di Alberto Fraccacreta
2' di lettura
La poesia di Riccardo Bravi, giovane intellettuale marchigiano alla sua prima prova lirica, si nutre di molteplici suggestioni, particolarmente dalla tradizione francese, di cui egli è raffinato cultore. Poesie di solitudine e di rivolta è una silloge — bifronte dal punto di vista tematico, come annuncia il titolo — i cui versi, lunghi ed estenuati, presuppongono un intricato gioco di rimandi intertestuali, abilmente intessuto secondo una trama rimica (rime interne e, più spesso, baciate) alquanto innovativa.
Campeggia nello spettro tematico del libro la dittologia sinonimica camusiana: solidaire e solitaire, il solidale e il solitario, aggettivazione perfetta per qualificare l'io lirico che desidera combattere la propria solitudine (letterale e allegorica) con l'arma della rivolta: «Nel motto di Camus “solidaire” et “solitaire” si cela un doppio riverbero;/ un ossimoro, direbbero gli esperti di poesia, che pone côte à côte due termini antitetici./ “Solidale” e “solitario” vanno in realtà di pari passo nel momento in cui la creazione/ assume le forme di un atto che si rivolge all'Altro». Ça va sans dire, quella di Bravi è una poesia saggistica, centrata appunto sulla lezione transalpina del Novecento, e cioè sul colpo aforistico à la Char o sul discorso salmodiante claudeliano, sulla distillazione filosofica di un Valéry o sulla dizione prosastico-descrittiva di un Jaccottet.
Come osserva giustamente Umberto Piersanti nella prefazione, «i numerosi riferimenti letterari sono improntati spesso alla ricerca di un'identità di destino, ad una qualche fraternità che va al di là della stessa scrittura».
Proust, Borges e Moravia
È il caso di un testo tra i più riusciti, Talvolta sogno di essere malato, nel quale si addensano addirittura tre illustri compagni di sorte: «Talvolta sogno di essere malato/ cosicché io possa avere accesso a quella che Borges chiamava la “biblioteca universale”;/ e anche Proust, nel Tempo ritrovato,/ scriveva che l'immaginazione si muove di più all'interno di un corpo rovinato;/ sicché potrei inventare di più di quando sono sano, come fece Alberto Moravia,/ durante il suo periodo più obnubilato».
La comunanza “destinante” che Bravi rivendica è di natura ontologico-esistenziale: la malattia come pharmakon contro l'inermità del reale, come via di accesso a uno snodo creativo più autentico, teso a eludere il «fratello-fardello», le pesanti catene dell'umana necessità.La poesia diviene così pagina di diario, scricchiolio soffocante di referenti, riflessione dolceamara, esigenza di una formula estetica da cui trarre ammonimento per sé e per gli altri con un ritmo quasi caproniano («La maschera, come nella commedia, è il segno indissolubile dell'infranto/ che solo attraverso gli occhi ne carpisce il canto»). Scrive molto bene Angelo Vannini nella postfazione: «La solitudine in questa raccolta è temporalmente complessa: riguarda tanto l'individuo, confinato nella sua prigione, quanto lo spazio intersoggettivo, la solitudine che si situa tra gli individui; riguarda tanto il presente — la solitudine di ora, come fatto empirico — quanto l'avvenire, una solitudine come assenza di orizzonte, sospensione e chiusura dei possibili».
È qui, tuttavia, che si insinua stentoreamente la speranza di un tu “auratico” (unico e lontano, benjaminano), un tu infinito, accogliente oltre l'«orlatura della nostra mediocrità».
Riccardo Bravi, Poesie di solitudine e di rivolta, prefazione di Umberto Piersanti, postfazione di Angelo Vannini, Arcipelago Itaca, pagg. 72, euro 13,00
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