I videogiochi non sono più quelli di una volta. Sono più belli ma meno rivoluzionari
Hanno apparentemente perso la caratteristica più importante di tutte: quella spinta rivoluzionaria che ne ha caratterizzato la genesi, nei primissimi anni ‘80
di Francesco Serino
3' di lettura
I videogiochi non sono più quelli di una volta. Sono più belli da vedere, senza dubbio, più complessi da giocare, più strutturati, puliti e raffinati, ma hanno apparentemente perso la caratteristica più importante di tutte: quella spinta rivoluzionaria che ne ha caratterizzato la genesi, nei primissimi anni ‘80, e la consacrazione definitiva, a cavallo del nuovo millennio.
Non stiamo rimpiangendo i tempi delle riunioni in vasca da bagno di Nolan Bushnell, l’hippy imprenditore che fondò Atari e che oggi, a settantotto anni suonati, non ha poi molto da aggiungere.
Troviamo però insopportabile che non ci sia più posto per tutti quei geni che contribuirono a rendere questo medium uno straordinario volano creativo, visionari disposti a tutto pur di concretizzare le loro idee sempre più folli, divertenti, indispensabili nel rendere il videogioco la Formula Uno della tecnologia: lo strumento con il quale sperimentare idee e soluzioni che poi, come abbiamo visto, sarebbero divenute di dominio pubblico nella società attraverso una gamification tuttora in corso, e in grado di rendere videogioco qualsiasi aspetto della nostra vita, dall’allenamento sportivo al conseguimento di obiettivi lavorativi.
Pensate che sia un caso che uno dei più grandi innovatori in attività, Elon Musk, sia anche un appassionato videogiocatore? E che le sue navicelle spaziali, nell’aspetto e nelle caratteristiche più stupefacenti, sembrino proprio uscite da un videogioco di fantascienza? I videogiochi sapevano ispirare e avevano abbastanza coraggio per rompere gli schemi proponendo formule totalmente nuove, una dietro l’altra, e poco importava se a volte non erano propriamente giochi, o effettivamente divertenti. La corsa non aveva come obiettivo quello di proporre il gioco perfetto, come oggi, bensì quello di tracciare nuove strade, stupire il pubblico e i rivali. E ci riuscivano eccome.
Ci riusciva David Crane, che non solo anticipò con il suo Pitfall il Super Mario di Nintendo, ma fu il primo a trasformare i nostri monitor in acquari digitali con i quali ammirare le basilari ma al tempo sbalorditive intelligenze artificiali di Little Computer People. Ci riusciva Peter Molyneux, l’inglese che sovvertì le regole del game design più e più volte, circondandosi di personaggi straordinari come l’allora giovanissimo Demis Hassabis, divenuto poi uno dei maggiori guru mondiali nel campo delle IA.
Ci riusciva Will Wright che, insieme alla sua Maxis, inventò i simulatori più atipici, da Sim City a Sim Life, dove siamo stati liberi di pasticciare con il Dna, chiudendo la sua carriera con il blockbuster The Sims e l’avveniristico ma fallimentare Spore, prima di fuggire a gambe levate da un’industria sempre più insofferente alla sua libertà creativa. Persino il più giovane Hideo Kojima è stato costretto a camminare sulle sue gambe per continuare a sperimentare.
Trasformazione a due facce
È anche grazie a questi personaggi, e a tutti quelli che non abbiamo citato, che i publisher di allora sono diventati i grandissimi di oggi. Una trasformazione che però li ha resi anche refrattari al rischio, e di conseguenza incompatibili con queste personalità per certi versi indomabili. Ma non è questo a sorprendere, lo è molto di più la trasformazione del pubblico, dei cosiddetti hardcore gamer, che non accettano più quei fallimenti che sono alla base di un processo iterativo come lo sviluppo di videogame.
Le personalità del passato sono state a turno derise, addirittura minacciate, e poi allontanate del tutto attraverso quel mobbing a distanza divenuto poi uno degli elementi più tristi e preoccupanti dei social network. Ironicamente, gli stessi gruppi che hanno contribuito a tutto questo, sono gli stessi che oggi si lamentano della mancanza di coraggio delle software house. Fortunatamente, i colpi di genio ci sono ancora, provengono però prevalentemente dallo sviluppo indipendente e a basso budget, come nel caso di Minecraft.
Anche la realtà virtuale ci ha riservato diverse sorprese in questi ultimi anni, ma, eliminato John Carmack dall’equazione, questa tecnologia cosi avveniristica sembra aver perso il suo impeto rivoluzionario, anche se in futuro con l’avvento dei metaversi già in lavorazione in casa Epic, Activision e Facebook le cose potrebbero cambiare profondamente.
Stiamo in fondo giocando all’ombra dei giganti del passato, sarà così per sempre?
All’orizzonte si staglia il machine learning che già sta portando degli effetti benefici in diversi campi ben più importanti del videogioco, in primis nella ricerca scientifica, ma che proprio nei videogiochi sembra aver trovato una collocazione perfetta per muovere i primi importanti passi. Il machine learning restaura automaticamente i classici, rende più precise le interfacce uomo-macchina di nuova generazione, permette ai personaggi dei videogiochi di capire e rispondere in modo naturale alle nostre domande, e più in generale fornisce ai designer nuove lettere di un alfabeto videoludico ancora in costruzione.
loading...