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Con il 25 aprile è ritornata la confusione su ciò che quella data significa. Per nostra fortuna, la chiarezza sul suo significato continua a caratterizzare il presidente della Repubblica. Ma non basta. Una democrazia è matura quando la sua classe dirigente condivide i fondamenti (per dirla con Jan-Werner Müller) su cui essa si basa. Nel nostro caso si tratta di due pilastri che si sostengono a vicenda. Se si toglie l'uno o l'altro, la casa non regge.Primo pilastro. L'Italia democratica si basa sul rifiuto del fascismo. Tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 è stato sconfitto il regime fascista, espressione di una visione autoritaria (degenerata in totalitarismo attraverso l'alleanza con il nazismo tedesco) che pure aveva conquistato i cuori e le menti di buona parte sia della classe dirigente che del popolo italiani. La Resistenza ha riscattato quella vicenda storica, ma non del tutto.
Il fascismo è stato sconfitto in una guerra drammatica, divenuta una vera e propria guerra civile. Soprattutto, la guerra contro il totalitarismo fascista-nazista non è stata condotta (e vinta) da un fronte democratico. Il fascismo è stato sconfitto da una coalizione antifascista, nella quale vi erano forze democratiche e forze totalitarie (come l’Urss e i partiti comunisti nazionali). La natura totalitaria del regime comunista, là dove si è realizzato, non è stata diversa dalla natura totalitaria del regime fascista o nazista, realizzatisi in Italia e in Germania. Distinguere i due regimi (fascista e comunista) sul piano delle intenzioni di chi li aveva promossi (la superiorità razziale nel primo caso, l’eguaglianza di classe nel secondo caso) è politicamente ingiustificabile. In entrambi i casi, si è trattato di totalitarismi basati sulla negazione dei diritti individuali, sull’affermazione di uno stato organico incompatibile con il pluralismo sociale ed economico, sull’uso sistematico della violenza per disciplinare il modo di pensare dei cittadini. Quindi nel fronte antifascista vi erano (e hanno continuato a esserci) forze politiche (comuniste) portatrici di una visione autoritaria, non dissimile da quella che contrastavano. Tuttavia, in Italia, la “fortuna” delle forze comuniste (e nostra) è stata di aver politicamente perso, di non aver dovuto dimostrare il carattere autoritario. Ciò non deve condurre a stemperare, però, il valore antifascista del 25 aprile. L’antifascismo è necessario per la nostra democrazia.
Secondo pilastro. L’Italia democratica si basa anche sull’europeismo. Proprio per l’ambiguità politica dell’antifascismo affermatosi nell’Europa occidentale postbellica, le élite di cultura liberale e democratica (in Italia Alcide De Gasperi, in Francia Robert Schuman, in Germania Konrad Adenauer, in Belgio Paul-Henri Spaak) presero una decisione cruciale. Quella di creare sistemi di difesa, interna ed esterna, per proteggere le democrazie nazionali. Occorreva prevenire ciò che era avvenuto dopo la Prima guerra mondiale quando, usando la democrazia contro sé stessa, le forze autoritarie (fasciste e naziste) poterono andare al governo attraverso regolari elezioni. Una possibilità che, nel secondo dopoguerra, era a portata di mano soprattutto dei partiti comunisti. Così, all’interno, furono introdotti controlli, bilanciamenti, difese per contenere le maggioranze politiche, senza impedire loro di governare. Furono messi fuori legge partiti totalitari, fu introdotta l’indipendenza della magistratura, furono create corti costituzionali, fu razionalizzato il parlamentarismo, fu costituzionalizzato (in Germania) il diritto di opporsi a ordini disumani. Come ha scritto Hanna Arendt, la democrazia «dovette diventare militante». All’esterno fu avviato il processo di integrazione europea. Si trattò di una scelta strategica (e, allora, minoritaria). Per l’élite politica postbellica, e per i loro “advisors” come Altiero Spinelli e Jean Monnet, l’integrazione europea avrebbe dovuto assumere un carattere sovranazionale anche per contrastare le minacce autoritarie nazionali. I Trattati della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA) del ’51 e della Comunità della difesa (CED) del ’52 costituiscono l’espressione istituzionale di quella scelta. Si decise di costruire una “repubblica estesa” (per dirla con il padre della costituzione americana James Madison), bilanciando le maggioranze nazionali attraverso una rete di autorità e norme sovranazionali. L’Europa non è nata “per salvare lo stato nazionale” (come ha sostenuto lo storico britannico Alan Milward), ma per addomesticarlo. Colpisce, peraltro, che la visione intergovernativa delle élite britanniche e scandinave sia oggi il senso comune di non pochi esponenti politici e intellettuali dell’Europa continentale. Ha scritto Rehling Larsen che l’Europa sovranazionale è necessaria per proteggere la democrazia nazionale. Se così è, allora deve contrastare l’autoritarismo, oggi promosso da leader di destra come Orbán e Morawiecki o domani da leader di sinistra come Mélenchon o Wissler. Anche l’europeismo è necessario per la nostra democrazia. L’Italia ha costruito una democrazia che si basa su due pilastri che si sostengono a vicenda, rappresentati dalla costituzione formale italiana e dalla costituzione materiale europea. Prendiamone atto e facciamo un passo in avanti.
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