«Il buco»: quando il cinema incontra la speleologia
Michelangelo Frammartino ha portato a Venezia il suo terzo lungometraggio, un'esperienza di indubbio fascino ambientata all'interno di alcune grotte
di Andrea Chimento
3' di lettura
A Venezia è il giorno del secondo italiano in concorso: dopo l’emozionante «È stata la mano di Dio» di Paolo Sorrentino, è arrivato il turno di Michelangelo Frammartino con «Il buco», il suo terzo lungometraggio. Alla base c’è un evento storico avvenuto negli anni Sessanta: mentre nel Nord Italia vengono costruiti edifici sempre più alti, all’altra estremità del paese, un gruppo di giovani speleologi esplora la grotta più profonda d’Europa nell’incontaminato entroterra calabrese.
Una vera e propria avventura, che passa inosservata agli abitanti di un piccolo paese vicino, ma non al vecchio pastore dell’altopiano del Pollino, la cui vita solitaria comincia a intrecciarsi con il viaggio del gruppo. Film dalla lavorazione lunga e complessa, «Il buco» è una pellicola che porta gli spettatori a vivere una vera e propria esperienza audiovisiva, facendoli immedesimare con gli esploratori che per la prima volta scoprono l’abisso del Bifurto, a circa 700 metri di profondità.
Fotografia di grande fascino
L’elemento più significativo dell’intera operazione è la splendida fotografia che gioca magnificamente con le luci e le ombre delle grotte, risultando suggestiva e credibile allo stesso tempo. In questa pellicola, di fatto priva di parole umane, ciò che conta sono i rumori e i suoni della natura, che Frammartino inquadra con grande delicatezza e trasporto emotivo. Come nel suo film precedente «Le quattro volte» del 2010 (che resta il suo lavoro migliore), fondamentale è proprio il rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda, come dimostra anche la notevole conclusione.
Mentre le riflessioni sull’alto e il basso (la costruzione dei grattacieli paragonata all’esplorazione delle grotte in profondità) risultano piuttosto didascaliche e un po’ scolastiche, di tutt’altra forza è il collegamento tra i giovani speleologi e il pastore che li osserva, taciturno, scrutando ciò che sta succedendo in quello spazio quasi incontaminato. Non è un film per tutti e non sarà semplice trovare posto nel palmarès finale, ma per chi è alla ricerca di un cinema naturalista e distante dai ritmi dinamici della contemporaneità «Il buco» può risultare una delle visioni più intense della stagione.
Il collezionista di carte
Mentre la Mostra di Venezia si avvia verso la fine della prima settimana, per iniziare a fare un bilancio, tra i film più interessanti del concorso si segnala «Il collezionista di carte» di Paul Schrader, pellicola che da questo weekend è anche nelle nostre sale. Protagonista è Oscar Isaac nei panni di un ex militare che ora vive nell’ombra e fa il giocatore d’azzardo. La vita dell’uomo, abituato a non prendersi troppi rischi, cambierà improvvisamente dopo l’incontro con un ragazzo intenzionato a vendicarsi di un nemico comune.
Quattro anni dopo il potentissimo «First Reformed», Schrader torna dietro la macchina da presa per una pellicola pienamente coerente con la sua filmografia, soprattutto per quanto riguarda il tema dell’etica che spesso va a collegarsi con le azioni di un uomo solitario, chiamato a farsi giustizia da sé. Scritto con grande cura e ricco di sequenze eleganti, in cui la colonna sonora dialoga benissimo con le immagini, «Il collezionista di carte» mette molta carne al fuoco (dalla redenzione al perdono, passando per il gioco come possibilità di trovare una nuova strada per vivere) ma Schrader la gestisce con attenzione e, nonostante qualche lieve calo durante il percorso, arriva a una conclusione toccante e a un risultato complessivo del tutto soddisfacente.
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