Il capannone senza fine dove si curano i Frecciarossa
Non lontano dalla stazione ferroviaria di Vicenza sorge il luogo in cui i giganti dell’Alta velocità, finalmente immobili, sono smontati ed esaminati alla ricerca di crepe, difetti e segni di usura
di Giuseppe Lupo
I punti chiave
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Resta un mistero come facciano i Frecciarossa a staccarsi dalla stazione ferroviaria di Vicenza e ad arrivare all'Officina Manutenzione Ciclica, la più antica in Italia (tra quelle attive) e una delle più imponenti, così tanto vasta da trasmettere l'impressione di un deserto. Dentro l'area, i binari si diramano in una ragnatela. Fuori, invece, sono nascosti tra l'asfalto e non si vedono i treni né quando entrano, né quando ripartono.
È qui che si effettua la revisione periodica degli Etr, dalle più semplici ispezioni degli interni (sedili, tappeti, finestrini, porte scorrevoli, vani bagagli, toilette) alle operazioni di verniciatura o di pellicolatura (quando sulle fiancate vengono applicate scritte o immagini pubblicitarie), fino alle più delicate ricognizioni meccaniche elettroniche. Gli Etr sono messi in fila sotto le tettoie – nel vecchio capannone sono ancora a capriate chiodate –, uno di fianco all'altro, come giocattoli lasciati in ordine prima della notte, e basta un colpo d'occhio per accorgersi che ci stanno per intero, ciascuno di essi è un unico, impensabile serpente di carrozze.
Dove sono gli operai?
Si conta almeno una quindicina di postazioni adatte alla revisione, ma è un dato che passa quasi inosservato perché questa parte di officina sembra essere così vuota da far sentire spaesati: dove sono gli operai? Si sentono i rumori, ma non si sa chi ne è l'artefice. Ciò contribuisce a dare la percezione di enormità. Non si riesce a calcolare la profondità dell'area che va oltre ogni aspettativa, oltre il senso di una proporzione, quasi l'imponenza dei treni ospitati generi una sorta di intoccabilità, proporzionata alla potenza che esprimono sulle rotaie. Si percepisce un dialogo muto tra grandezza, velocità, immobilità ed è l'elemento che colpisce appena si varca l'ingresso.
Di solito siamo abituati a vedere scorrere i Frecciarossa nelle campagne – nel tratto tra Bologna e Milano è un continuo andirivieni che lascia una scia vermiglia nel paesaggio di pioppi – e il ricordo del loro procedere sicuro e veloce, in confronto al trovarseli qui, ora, nella condizione di fermo, contribuisca a rendere questa visita un'esperienza innaturale. Sono treni che appaiono così solidi quando viaggiano o quando sostano nelle stazioni, così sani nell'aspetto di giganti indisturbati da risultare impossibile l'idea che abbiano bisogno di un check up. Perché è esattamente questo – effettuare una diagnosi, esaminare lo stato di salute – il vero motivo per cui finiscono qua dentro.
Una gemma gialla e blu
Addirittura in uno dei settori si trova il Diamante 2.0, un Etr 500 colorato di blu e con una striscia orizzontale gialla, perfettamente simile a quelli che trasportano viaggiatori, ma con una sofisticata attrezzatura computerizzata a bordo in grado di effettuare operazioni di autocontrollo, di calcolare fino a che velocità massima spingersi o in che tipo di reazione potrebbero incorrere le ruote, i carrelli rotori, le calette e tutti gli altri materiali sottoposti a sollecitazioni in una tratta dell’Alta velocità. Si salgono i gradini e ci si trova in scompartimenti che riproducono quelli normalmente in uso ma vuoti, sale riunioni con tavoli sagomati sulla forma lunga delle carrozze anch'essi disertati. Nella sua pancia non si vede anima viva, i corridoi sono adatti ai fantasmi più che agli esseri umani, attraversati da cavi elettrici e punteggiati di antenne, le porte scorrevoli si aprono e si chiudono ma nessun viaggiatore accompagnato da zaini e trolley passerà da una carrozza all'altra con l'intento di trovare un posto per sedersi. È un treno-ombra: si muove sugli stessi binari degli altri e spesso negli orari meno frequentati, magari di notte o a temperature estreme, ma vive un'esistenza infelice, sempre a caccia di errori o di colpe, come un poliziotto. È stato costruito un gemello che si chiama Aiace, ma non si trova qui, a Vicenza, starà viaggiando su qualche tratta.
Un eroe senza meta
Aiace è un nome più suggestivo di Diamante: dichiara la parentela con l'epoca mitologica dove gli uomini appartenevano alla razza degli eroi e, in quanto tali, partecipavano di un'epopea dove tutto si esprimeva a proporzioni gigantesche. Fa piacere immaginare che Diamante e Aiace si spartiscano i lunghi corridoi dell'Alta velocità e, correndo qua e là per l'Italia, senza una meta fissa ma solo per obbedire agli obiettivi per cui sono stati progettati, trovino i punti critici, registrino le minacce, incamerino informazioni che poi i software conserveranno a futura memoria. A guardarli con certi occhi, entrambi sono una specie di cavia: lavorano per il bene della comunità, si sacrificano per rendere migliori i loro gemelli, quelli che ogni giorno escono dai depositi al lato delle grandi stazioni e si fanno trovare pronti sui binari per accogliere chi parte.
C'è una sola cosa che Diamante non può prevedere ed è l'usura. Per quanto si pensi ai Frecciarossa come oggetti indistruttibili, bisogna convincerci che anch'essi obbediscono al passaggio del tempo, sentono la fatica del vivere in perenne fuga e si stancano, si logorano, si ammalano. C'è un'ala dell'officina in cui vengono smembrati e sollevati da terra per permettere agli operai manutentori di smontare l'intero blocco del carrello ruote, la cosiddetta sala montata, e avviarlo al settore chiamato torneria.
Lo sguardo dell’uomo...
È qui che finalmente si nota la presenza degli operai in tuta e con guanti: si radunano intorno alle ruote, misurano lo spessore dell'acciaio, smontano assili, sollevano e abbassano catene, azionano bracci di gru. Il procedimento resta ancora quello tradizionale, cioè il colpo d'occhio (ma seguendo parametri assai rigorosi): se l'acciaio dello scaletto è sotto una certa gradazione, la ruota è consumata, va staccata dall'assile e sostituita con una nuova.
L'officina che si riempie di voci e di gesti, l'officina della manualità si prende la rivincita sul paradigma assoluto della tecnologia. Dal tono con cui viene descritta l'operazione, si ricava l'impressione che sia una manovra tra le più delicate dell'intero ciclo di manutenzione. Per calettare una nuova ruota, vale a dire per fissarla all'assile, si può procedere a caldo o a freddo. Nel primo caso, la ruota, bisogna prima chiuderla in una specie di forno e portarla a temperatura tale che poi soltanto il braccio di una gru è in grado di tirarla fuori. Nel secondo, invece, si agisce con una pressa.
...e quello delle macchine
Ma anche qui non basta sostituire un pezzo con un altro per credere che il treno sia al sicuro dai pericoli. L'assile che fa da perno tra le due ruote, per quanto appaia in ottime condizioni, potrebbe nascondere delle crepe che soltanto la sonda per il controllo magnetoscopico riesce a individuare. Si chiude l'assile in una camera oscura, lo si cosparge di polveri speciali e si aspetta. Le particelle si infilano ovunque, sono brave a segnalare la più millimetrica delle crepe con i loro colori fluorescenti e nel buio della camera oscura la loro vivacità cromatica rappresenta la pericolosa anomalia di un gigante perfetto che però, senza questo tipo di aiuto, conterrebbe una minaccia.
Una volta appurato il difetto, l'assile finisce nei settori in disarmo, in quella zona tenebrosa e lontana della grande officina dov'è accantonato tutto ciò che in un determinato periodo ha avuto una sua utilità e ora ha terminato il ciclo biologico. Stanno lì, assili, ruote, carrelli, bulloni e paiono scarti tra gli scarti, ossa consumate di una modernità che ha fatto la sua parte e adesso è pronta a essere riciclata, logorata ma non rifiutata, con la dignità di aver funzionato al servizio di un'idea e di aver contribuito, nel loro piccolo raggio di competenza, al segmento di un tempo che è passato troppo in fretta, come il convoglio di cui facevano parte, sui binari.
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