Interventi

Il capitale «paziente» nell’epoca dell’impazienza

di Elisa Luciano

(Agf)

3' di lettura

L’industria 4.0 e l’innovazione, che è al tempo stesso la sua linfa e la linfa del nostro futuro economico, richiedono investimenti importanti e investitori saggi. Richiedono, da parte del business, coraggio, visione, capacità di gettare il cuore oltre l’utile del trimestre successivo. Richiedono coinvolgimento di tutti gli stakeholder in una progettualità nuova, di più lunga gittata. Ma soprattutto richiedono che il capitale, gli investitori, siano altrettanto coraggiosi e pazienti. Che capiscano e sostengano l’importanza di investire con un’ottica pluriennale, sapendo che tra tanti progetti innovativi, alcuni, forse pochi, avranno un successo enorme, altri si scioglieranno di fronte alle difficoltà di realizzazione, di “messa a terra”, come si dice in gergo. Richiedono che chi finanzia l’innovazione bandisca l’impazienza, tanto comune ai giorni nostri.

Oggi più che mai è importante, innanzitutto in Italia, dove le risorse pubbliche sono limitate, che l’investimento privato capisca e sostenga il coraggio dell’economia reale. Storicamente, il ruolo di sostegno alla crescita economica e di stabilizzazione dei mercati finanziari è assegnato ai cosiddetti investitori di lungo periodo: fondazioni, compagnie di assicurazione, fondi pensione e casse di previdenza, fondi infrastrutturali, ma anche wealth manager e family office. A tutti questi attori, che hanno o dovrebbero avere un orizzonte pluriennale e non essere legati alla performance immediata, è stato tradizionalmente affidato questo ruolo di zoccolo duro e stabilizzazione. Ruolo che hanno svolto, per quanto possibile, anche negli anni della Grande recessione, almeno in Italia e in Europa.

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Alle attese storiche si sono affiancate a più riprese le sollecitazioni da parte dei G20, dei G7, dell’Ocse, che hanno costituito osservatori e si son ripromessi di identificare strumenti di policy e possibilità di intervento da parte delle Autorità di politica economica competenti.

Al di là di questi grandi movimenti, nell’operatività quotidiana di un’economia, come quella italiana, ricca di idee e di cervelli, anche non in fuga, come fare a incentivare l’interesse dei capitali pazienti verso le iniziative che dovrebbero ridare slancio al nostro sistema produttivo? Molto si è fatto o si sta facendo, dal punto di vista di chi chiede capitali, per dare evidenza del fatto che l’Italia, e alcuni distretti industriali in particolare, o alcune realtà al loro interno, sono ancora competitive a livello globale, e conviene investire in esse. Si pensi al rapporto Aspen 2017, «Digital Disruption and the Transformation of Italian Manufacturing», in cui si metteva in evidenza che l’87% dei posti di lavori all’estero dell’industria dell’Italia del Nord-Ovest può essere convenientemente riportato a casa. Si pensi ai dati sulla competitività del nostro settore manifatturiero, che mostrano una grande eterogeneità. Allinearsi ai primi della classe in Italia, in termini di produttività e innovazione, già sarebbe sufficiente per dare a quelli che guardiamo come ex distretti industriali un futuro vincente. Il recente rapporto di Domani.TO, presentato in settimana all’Unione Industriale di Torino, riporta cifre incontrovertibili e convincenti sull’opportunità di investire nel 4.0 in Italia.

Molto si deve ancora fare per accrescere la sensibilità degli investitori di lungo periodo a questi temi. A questo fine, nel 2017 è stato costituito, presso l’Università di Torino, con il supporto di idee e di risorse di una rete di investitori di lungo periodo, un centro di ricerca e divulgazione, chiamato LTI@Unito (Long-Term-Investor). L’esperienza del centro, unico nel suo genere in Italia, dimostra che, sotto l’egida di un ente super partes come un’Università, si può instaurare un circolo virtuoso di collaborazione tra ricercatori e player di mercato per discutere di misurazione e diversificazione del rischio nel lungo periodo, di asset allocation, di governance e accountability del processo di investimento. A che fine? Perché vengano finanziati i progetti davvero promettenti da un lato, perché anche i finanziatori siano tutelati dall’altro.

Professore ordinario, Unito e Direttore scientifico, LTI@Unito

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