CINEMA

Il cinema italiano protagonista a Locarno con il sorprendente «Menocchio» di Alberto Fasulo

di Andrea Chimento

3' di lettura

Il cinema italiano punta al Pardo d'oro: al Festival di Locarno è stato presentato «Menocchio» di Alberto Fasulo, film che potrebbe rientrare tra i massimi candidati per il premio più importante della kermesse.
Al centro c'è la storia vera di Domenico Scandella detto “Menocchio”, un mugnaio del Cinquecento che venne accusato di eresia. L'uomo attraverserà il lungo processo senza tradire nessuno, rimanendo convinto delle sue idee su Dio, sulla religione e sul ruolo della Chiesa Cattolica.

Unico titolo italiano inserito nel concorso principale del Festival, «Menocchio» è un lungometraggio di grande potenza formale, caratterizzato da notevoli giochi di luce e da tempi di montaggio scanditi in maniera perfetta.
La macchina da presa di Fasulo inquadra costantemente i volti dei personaggi, in una serie infinita di primi piani capaci di far cogliere ogni singolo cambio d'espressione del viso, ogni emozione che si riesce a percepire dagli sguardi del mugnaio e delle persone a lui vicine.

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Ed è proprio il personaggio principale, magnificamente interpretato da Marcello Martini, a scuotere e lasciare il segno: un uomo genuinamente convinto di essere uguale ai vescovi, agli inquisitori e persino al Papa, tanto da sperare di poterli convertire a un ideale di povertà e amore.
Si sentono echi del cinema di Ermanno Olmi e si può pensare anche al notevole «Gostanza da Libbiano» di Paolo Benvenuti del 2000 ma, nonostante i tanti riferimenti precedenti, «Menocchio» vive di personalità propria, grazie a una regia elegante e delicata allo stesso tempo, come dimostra anche la suggestiva conclusione.

Non ci sono però soltanto momenti improntati sul forte realismo, ma anche una riuscita sequenza dal sapore onirico, che anticipa proprio il toccante finale.
Il regista Alberto Fasulo, classe 1976, aveva già ottenuto un premio importante con «Tir», film che vinse il Marc'Aurelio d'Oro al Festival di Roma nel 2013; la speranza è che la giuria locarnese, capitanata da Jia Zhang-ke, possa trovargli un meritato spazio anche in questo palmarès.
Lontano dai riflettori della competizione principale, il cinema italiano si fa notare anche per prodotti dal taglio più sperimentale che meritano una segnalazione.

Uno di questi è indubbiamente «Dulcinea» di Luca Ferri, film ambientato nella Milano degli anni Novanta con protagonista una ragazza (incarnazione della Dulcinea di Cervantes) che si prepara a ricevere un cliente nel suo appartamento. L'uomo, seguendo una precisa ritualità, si dedica alla pulizia maniacale di quattro stanze. La ragazza si comporta come se non ci fosse, i due non hanno contatti, ma il cliente trafuga alcuni oggetti che le appartengono.
Trama insolita e pochissime parole per un prodotto curioso che parla di patologie, raptus maniacali e ripetizioni ossessive. Indubbiamente un film che non si vede tutti i giorni, adatto a chi è in cerca di qualcosa di diverso da ciò che propone abitualmente la nostra produzione.

Stesso discorso vale per «My Home, in Libya» dell'esordiente Martina Melilli.
La regista si mette in gioco, facendo venire alla luce il passato della sua famiglia: il nonno Antonio è nato in Libia all'epoca in cui era una colonia italiana, ha vissuto a Tripoli e lì ha sposato Narcisa. Nel 1970, con il colpo di stato di Gheddafi, lui e la moglie sono stati costretti ad abbandonare il paese in tutta fretta. Con l'aiuto di un giovane libico contattato tramite i social network, Martina raccoglie immagini della città natale dei suoi nonni così come si presenta oggi.
Si tratta di un prodotto intimo e personale, che mostra come il territorio del documentario sia ancora uno spazio di scoperta e rivelazione.

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