Il climate change ridurrà allo stremo 200 milioni di persone ogni anno
Inondazioni, tempeste, incendi, siccità potrebbero costringere duecento milioni di persone ogni anno a dover far affidamento agli aiuti umanitari per sopravvivere, se non verranno prese contromisure adeguate
di Gianluca Di Donfrancesco
4' di lettura
Inondazioni, tempeste, incendi, siccità potrebbero costringere duecento milioni di persone ogni anno a dover far affidamento agli aiuti umanitari per sopravvivere, se non verranno prese contromisure adeguate: è la stima elaborata dalla Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa (Ifrc) in un rapporto diffuso il 19 settembre a New York.
L’Ifrc ha scelto la cornice dei vertici Onu sul clima, in corso in questi giorni, per lanciare l’appello a intensificare gli sforzi contro il surriscaldamento globale. Oggi sono 108 milioni i diseredati del climate change: sono i più poveri - con redditi inferiori a 10 dollari al giorno - tra i 206 milioni di persone che ogni anno vengono colpite da catastrofi naturali. Entro il 2030, potrebbero aumentare del 66% e quasi raddoppiare (+85%) entro il 2050.
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Parallelamente, salirebbe anche lo sforzo finanziario necessario per fornire assistenza: nello scenario peggiore, si arriverebbe a 20 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Secondo il presidente dell’Ifrc, Francesco Rocca, «questi risultati confermano l’impatto che il cambiamento climatico ha e avrà sulle popolazioni più vulnerabili del pianeta. Ed evidenzia lo sforzo che i disastri ad esso legati impone sulle agenzie umanitarie e sui donatori internazionali». Il report, aggiunge Rocca, mostra però anche che «è possibile fare qualcosa», a patto di «agire subito», con investimenti in misure in grado di mitigare gli effetti dei disastri del surriscaldamento globale e di promuovere uno sviluppo più inclusivo: questo potrebbe permettere di ridurre a 68 milioni le persone che contano sugli aiuti umanitari entro il 2030. E addirittura a 10 milioni entro il 2050.
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Investimenti redditizi
Il report dell’Ifrc va nella stessa direzione di altri studi di organismi internazionali, come quello appena pubblicato dalla Global Commission on Adaptation (Gca), l’organismo guidato dall’ex segretario generale Onu, Ban Ki-moon, Bill Gates e dal candidato europeo alla guida dell’Fmi, Kristalina Georgieva. Secondo questo studio, entro il 2050, il climate change potrebbe arrivare a ridurre del 30% il raccolto in tutto il mondo. Nello stesso periodo di tempo, la domanda di cibo è però destinata a aumentare del 50%. Nei prossimi 10 anni, il cambiamento climatico potrebbe spingere sotto la soglia della povertà 100 milioni di abitanti dei Paesi in via di sviluppo.
Sempre secondo la Gca, entro il 2050, il numero di persone che non avranno un accesso sufficiente all’acqua salirà dai 3,6 miliardi attuali a 5 miliardi, mentre l’innalzamento del livello dei mari e gli uragani (sempre più violenti) genereranno un costo di mille miliardi di dollari l’anno a carico delle aree costiere urbane.
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Il report della Global Commission on Adaptation sostiene anche che gli investimenti in misure in grado di mitigare gli effetti del cambiamento climatico possono generare un ritorno sul capitale che va dal 100 al 1.000 per cento: in media, 1.800 miliardi di dollari spesi in cinque aree di intervento (sistemi di allerta, infrastrutture, produzione agricola, risorse idriche e difesa delle mangrovie - una barriera naturale contro le inondazioni) potrebbero garantire benefici netti per 7.100 miliardi.
Il primo investimento, sottolinea il rapporto, sono le «perdite evitate». I sistemi di allerta, oltre a salvare vite, possono permettere di ridurre del 30% i danni economici causati da una tempesta, con un preavviso di appena 24 ore. Spendere 800 milioni di dollari in questi sistemi nei Paesi in via di sviluppo permetterebbe di risparmiare dai 3 a i 16 miliardi all’anno. Analogamente, costruire infrastrutture a prova di mal tempo può farne salire i costi del 3%, ma garantirebbe benefici del 400%. Le foreste di mangrovie assicurano 80 miliardi di dollari l’anno di costi evitati, grazie alla loro capacità di fare da barriera contro le inondazioni. A queste somme si sommano 40-50 miliardi di dollari in benefici non commerciabili, legati a pesca, forestazione e ricreazione.
L’appello dell’Ocse
Secondo un altro rapporto, questa volta diffuso dall’Ocse il 13 settembre, nel 2017, i Paesi avanzati hanno fornito o mobilitato a favore dei Paesi in via di sviluppo 71 miliardi di dollari di finanziamenti (pubblici e privati) per iniziative di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, con un incremento del 21% rispetto al 2016. Per arrivare al traguardo fissato di 100 miliardi entro il 2020 servirà però un aumento del 30% in 4 anni. Il segretario generale dell’Ocse, Ángel Gurría, prova a essere ottimista e giudica l’obviettivo «ancora raggiungibile, ma dobbiamo rafforzare con urgenza gli sforzi».
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La geopolitica del Climate Change
Secondo Michelle Bachelet, commissario Onu per i diritti umani, il cambiamento climatico ha conseguenze geopolitiche: il 40% delle guerre civili degli ultimi 60 anni sarebbe infatti causato dal degrado delle condizioni ambientali: nel Sahel, la perdita di terreni coltivabili «sta intensificando la competizione per il controllo di risorse alimentari già scarse», ha detto Bachelet. Un processo che esaspera le tensioni etniche e alimenta l’instabilità politica.
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