Il commissario Sciascia
di Salvatore Silvano Nigro
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Il commissario Montalbano, disegnato dalla penna di Andrea Camilleri, è personaggio di buona cultura cinematografica e letterararia. Ha visto i film che è necessario vedere. E ha letto i libri che ogni buon lettore ha l’obbligo di leggere. Fra gli scrittori che più gli sono congeniali, ha una preferenza particolare per Leonardo Sciascia. Ha letto i suoi romanzi. Li ha quasi studiati. Li consulta mentalmente mentre procede nelle sue indagini. Ha però un rammarico. Sciascia è senz’altro un grande scrittore. Ma lui l’avrebbe voluto avere accanto come collega, come commissario. Ha una sua teoria, in proposito. E non esita a formularla. Dice: «Leonardo Sciascia, se invece di fare il maestro elementare avesse fatto un concorso nella polizia, sarebbe diventato meglio di Maigret e di Pepe Carvalho»; meglio di un personaggio di Simenon; meglio di un personaggio di Manuel Vázquez Montalbán. Sarebbe stato la sintesi geniale di due supremi maestri dell’investigazione. Sembra un gioco, l’ipotesi di Montalbano. Ed è invece un elogio allo scrittore Sciascia che nelle sue opere (anche in quelle di erudizione storica, giocate tra documento e ironia) si è avvalso della tecnica del romanzo poliziesco, della sua «forma» (di «rompicapo», di «puzzle» o «cruciverba narrativo»), della sua disciplina. E, come scrittore, ha fatto suo il ruolo del detective; guardando al modello Maigret («mi pare di avere qualche tratto di Maigret; il colpevole non mi interessa», ha scritto, «ma mi interessa invece studiare una situazione, un “contesto”»): e al modello Simenon, che ha «assunto in prima persona» il «ruolo di Maigret» («e si identificano a tal punto, personaggio e autore, che del metodo di indagine di Maigret si può dire la stessa cosa che per il modo di scrivere di Simenon»).
Sciascia aveva obliqua vocazione a essere scrittore saggista. Ha più volte dichiarato: «Credo di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio. Dirò di più: quando mi viene un’idea di qualcosa da scrivere, breve o lunga che sia, non so in prima se mi prenderà la forma del saggio o del racconto. Persino Il Consiglio d’Egitto, che è forse il mio libro più raccontato, è in effetti un saggio». E anche in questa propensione, che identifica saggio e racconto sul crinale dei processi mentali dell’investigazione, c’entra il «giallo», se si pensa alle amate finzioni di Borges: «Filologiche e filosofiche indagini, misteriose ricostruzioni di dissepolti frammenti della storia e del pensiero umano», tanto che «si capisce benissimo la tendenza di Borges a fare il racconto poliziesco: con una capacità tecnica da disgradare qualsiasi mestierante del genere giallo, ma giocando con una materia filologica, di apocrifa filologia, invece che con una materia propriamente criminale». Persino i lettori di romanzi gialli devono, secondo Sciascia, tendere alla filologia. «I buoni lettori del “giallo”» dovrebbero essere di «natura filologica», in modo da esercitare tale inclinazione «nella lettura di libri simili». E in questa sua idea, Sciascia trovò un complice inaspettato in Giorgio Manganelli (lettore di Borges). Manganelli recensì nel 1962 (come anche Sciascia, nello stesso anno) la Breve Storia del Romanzo Poliziesco del filologo Alberto del Monte. Scrisse: «Il romanzo giallo … quello che, inaugurato da Poe, culmina in Conan Doyle, Edgar Wallace, Agatha Christie, soddisfa in primo luogo il filologo che è in noi: il nostro amore per le cose trascurabili che sospettiamo piene di senso; l’idea, solenne e puerile, che l’universo sia colmo di frammenti di significato, che l’occhio esercitato ricostruisce su esilissimi indizi. La filologia, che da una parte confina con la criminalità rettamente intesa, dall’altra si arroventa fino a sfiorare i sobborghi della teologia. Nel romanzo poliziesco, l’opera del criminale trova intoppo nell’opposta azione di altro, non meno astratto filologo: il detective. Rappresentanti del bene e del male, della ragione e della follia, essi recitano una farsa, una tragedia mitologica: non altro è il senso di quella mirabile unità di spazio, luogo ed azione che, tramite le dotte mani di Aristotele, Eschilo ha consegnato ad Agatha Christie».
Del resto, in questa raccolta di articoli, note e saggi di Sciascia dedicati ai romanzi gialli, mirabilmente curata da Paolo Squillacioti, ottimo filologo detective, per ben due volte è citato il saggio del poeta W. H. Auden, La parrocchia delittuosa. Osservazioni sul romanzo poliziesco. Sciascia dichiara d’averlo letto su un numero della rivista «Paragone»: del dicembre 1956, aggiungiamo, e nella traduzione di Giorgio Manganelli. Ed è dalle pagine di Auden che Sciascia declina il suo «vizio» di lettore di romanzi polizieschi, e la convinzione che queste opere appartenenti alla letteratura «plebea», come diceva Savinio, che questi libri da leggere in treno, e lì dimenticarli, avevano molto da insegnare sulla «magia» della tecnica narrativa: «tecnica affascinante», sottolinea in un articolo del 1954, «che ha dato al romanzo contemporaneo un notevole apporto: dai divertimenti di un Crommelynck, di un Gadda, di un Soldati ai gialli teologici di Graham Greene»; e, in un altro articolo di un anno prima, aveva evidenziato come Hammett avesse avuto «un’influenza notevole» su Hemingway, come la tragedia greca fosse giunta a Faulkner «attraverso la mediazione di O’Neill», come Cain fosse indebitato con il giallo «non soltanto in senso tecnico».
Sciascia considerava I fratelli Karamazov e Delitto e castigo di Dostoevskij i due più grandi romanzi polizieschi della letteratura universale. E inneggiava a Gadda che, con Il pasticciaccio brutto de via Merulana aveva scritto «il più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione, un pasticciaccio. Che può anche essere inteso come parabola, di fronte alla realtà come nei riguardi della letteratura, dell’impossibilità di esistenza del “giallo” in un paese come il nostro: in cui di ogni mistero criminale molti conoscono la soluzione, i colpevoli –ma mai la soluzione diventa “ufficiale” e mai i colpevoli vengono … assicurati alla giustizia».
Il metodo di Maigret è, nel suo essere una raccolta di brani sparsi e dispersi, un libro «inventato» dall’editore. Un regalo ai lettori. Un omaggio all’autore che, da parte sua, si divertiva, in questo darsi alla passione gialla, mantenendo sempre un mezzo sorriso sulle labbra, tra una stoccata politica e un’invettiva civile. Sciascia avrebbe voluto scrivere il libro alla maniera dotta, sulfurea e suggestiva di Mario Praz. E pubblicarlo come fosse un’appendice al celebre La carne, la morte e il diavolo.
Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi 2018,
pagg. 192, € 13,00
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