Il complicato divorzio del Regno Unito
di Chris Patten
4' di lettura
Mentre il Regno Unito sta formalmente avviando i penosi negoziati per autoescludersi dalla politica e dall’economia dell’Europa, il premier britannico Theresa May si rifiuta di usare la parola “divorzio” per descrivere quello che sta accadendo. Mia moglie, un’avvocatessa in pensione che si è sempre occupata di diritto di famiglia, pensa che May non abbia tutti i torti, in fondo la famiglia dalla quale stiamo uscendo racchiude molta della nostra storia e dell’argenteria di casa, oltre ai nostri futuri interessi economici. In questo senso è difficile parlare di divorzio.
Il Regno Unito non è stato così insulare come molti credono. A partire dalla nostra famiglia reale (che è tedesca), alle nostre esportazioni (prevalentemente verso l’Europa) abbiamo contribuito a determinare e a essere influenzati dagli sviluppi nel resto dell’Europa occidentale. Ci separano solo i trentatré chilometri d’acqua dello Stretto di Dover, ma mai come in questi giorni sembrano tanti.
Ma allora perché stiamo uscendo?
La causa è un misto di frustrazione, delusione, menzogna e ostinazione. Eravamo stufi dell’incapacità dell’Europa di affrontare alcune delle sue sfide più difficili, dalla competitività all’immigrazione, senza cercare di conquistare un potere centrale maggiore.
Inoltre, per anni i nostri leader politici hanno fatto il gioco dei nemici dell’Ue, mostrandosi disposti ad accettare le loro critiche, molte delle quali infondate. Noi ci rifiutiamo di vederci per quello che siamo: un Paese di medie dimensioni che non è più a capo di mezzo mondo. Ci hanno convinti con troppa facilità che non si può essere patrioti senza essere nazionalisti.
Noi possiamo e dobbiamo gestire le conseguenze di questa uscita senza farci troppo male. Ma il processo di separazione finora non offre grandi speranze.
Il referendum della Brexit lo scorso giugno è stato un disastro. Una democrazia parlamentare non dovrebbe mai ricorrere a strumenti così populisti. E anche così, May avrebbe potuto rispondere al 52% che ha votato pro-Brexit dicendo che avrebbe affidato i negoziati a un gruppo di ministri che credeva in quel risultato e che poi avrebbe rimesso l’esito dei negoziati nelle mani del Parlamento e del popolo britannico. E invece ha trasformato il suo intero governo in una macchina- Brexit, pur avendo sempre auspicato di restare nell’Ue. Il motto del suo governo adesso è: «Brexit or bust» ovvero, o Brexit o il disastro. E disgraziatamente, potrebbero verificarsi entrambe le possibilità.
E allora, cosa succederà dopo?
Nessuno lo sa. Il burrone chiama e i lemming si preparano.
Sappiamo che quasi la metà delle nostre esportazioni va all’Ue, cinque volte più che all’intero Commonwealth e sei volte più che ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Eppure abbiamo rinunciato a restare nel mercato unico (avremmo dovuto accettare la giurisdizione europea e la libera circolazione del lavoro) o nell’unione doganale. Apparentemente vogliamo un accordo di libero mercato con l’Ue secondo i nostri termini, che tuteli le nostre principali industrie e i nostri principali servizi.
Secondo il segretario agli Esteri britannico Boris Johnson, in questo giro di negoziati siamo noi ad avere le carte in mano perché gli europei vogliono continuare a venderci i loro prodotti, come il Prosecco. Comunque vada, dicono i ministri di Theresa May, non importa se non raggiungeremo un accordo. Ce ne andremo e basta. E forse non concludere nessun accordo non sarebbe poi così male, insistono, perché il mondo non vede l’ora di fare più affari con noi, che con la sterlina che continua a scendere saranno più convenienti in futuro.
Tutto questo, per tornare alla parola che Theresa May non vuole usare, ha tanto l’aria di un brutto divorzio. Ogni minimo risvolto dei negoziati verrà accompagnato dal sentimento xenofobo dell’estrema destra dei Tories di May e sulla stampa popolare britannica con la quale il premier è così in debito.
È già un dramma mandare in rovina la nostra economia, cosa che renderà i poveri ancora più poveri e persino gli imprenditori più vulnerabili. E come se non bastasse, stiamo sovvertendo molte delle regole e delle convenzioni della nostra democrazia parlamentare, che dovrebbe incoraggiare il perseguimento del consenso e del compromesso, e scongiurare il sistema maggioritario.
Lo scorso giugno un mero 52% degli elettori britannici ha espresso la volontà di uscire dall’Ue. Su che cosa si sia espresso esattamente, resta un mistero. Resta il fatto che si è espresso, insistono Theresa May e i fautori della Brexit. Quindi i giochi sono fatti. Ignorate, dicono, quello che “i nemici del popolo”, i giudici dei nostri tribunali indipendenti, hanno da dire. Sovrastate le voci che mettono in discussione quello che ci sta effettivamente accadendo, attaccate la reputazione di chiunque – imprenditore, politico o leader della società civile – caldeggi la permanenza nell’Ue o auspichi un dialogo aperto sulla questione. Dite alla BBC che deve accettare la Brexit con entusiasmo, se non vuole scatenare l’ira popolare. Ma soprattutto, chiudiamo il dibattito parlamentare, e tutto «per riportare la sovranità parlamentare».
Questo divorzio non sta andando bene. E l’iter è appena cominciato. La strada è ancora lunga. E vai a sapere come ne uscirà il Regno Unito. Ma come con qualsiasi divorzio, possiamo star certi che a soffrirne di più saranno i bambini.
(Traduzione di Francesca Novajra)
© 2017, Project Syndicate
Chris Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong ed ex commissario Ue per gli affari esteri, è cancelliere dell’Università di Oxford.
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