a tavola con vincenzo cesareo

Il corpo a corpo con la storia dell’Ilva

di Paolo Bricco

7' di lettura

«Il 26 luglio del 2012, mi trovavo nell’ufficio di presidente di Confindustria Taranto. Il mio socio, Tommaso Carone, mi chiamò al telefono: “All’Ilva stanno mandando via tutti. Sta succedendo qualcosa di grosso. In acciaieria, ci sono carabinieri ovunque”». Quella telefonata rappresenta per Vincenzo Cesareo l’inizio del vortice.

Cesareo è titolare della Comes, un’azienda che in quel momento fattura 15 milioni di euro e ha 150 addetti.

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Per lui, incomincia il corpo a corpo con una storia complicata e violenta, piena di trappole e ancora da scrivere nel finale. Gli arresti e i sequestri. Il risentimento di una comunità verso la famiglia Riva e i 15,8 miliardi di Pil nazionale persi dal 2013. I tre colpi di pistola e il fuoco appiccato al portone di Confindustria Taranto. Il crollo del valore dell’impresa – con l’abbattimento del capitale netto - durante gli anni dei commissariamenti e gli scontri furibondi fra la magistratura e la politica. L’assegnazione a Arcelor Mittal, il ruolo dell’Unione europea e i dubbi dell’Antitrust.

Cesareo – 56 anni, sposato con Mariella, due figli (Mirko, 25 anni e Antonella, 16) – indossa una giacca a quadretti blu e verdi. Un fazzoletto gli spunta dal taschino. Ha una camicia blu scura che vira verso il nero. Le scarpe sono lucide. Siamo al ristorante Canale, sotto il ponte girevole che qui a Taranto divide il Mar Grande dal Mar Piccolo. Lui ordina una tartare di tonno e verdure crude. Io prendo calamari fritti e melanzane pastellate, tagliate a spicchi. Gli vibra lievemente la voce quando ricorda l’inizio del vortice in cui si sarebbe trovato nei cinque anni successivi.

Racconta Cesareo: «Ho un’azienda che, per la dimensione locale, è grande e strutturata ma che, rispetto agli standard nazionali e europei, è piccola. Ho capito subito che il problema sarebbe stato enorme: di rilevanza, appunto, nazionale ed europea. Tutti lo intuivano. Nel 2007, prima dell’inizio della crisi, l’Ilva generava direttamente o indirettamente il 2,7% del Pil italiano, il 20% dell’export pugliese, il 93% del valore aggiunto industriale della provincia di Taranto. Mi mancava il fiato a pensare a quello che stava capitando. Temevamo tutti che si fermasse il mondo. Assistevo a scene di panico. Ricevevo telefonate disperate di giorno e di notte. Avevo colleghi il cui fatturato dipendeva al 90% dall’Ilva».

In quel caos, Cesareo fa leva su un elemento di razionalità. «Nella testa, mi ha salvato l’avere sempre sviluppato una strategia di diversificazione della clientela e il non avere alcuna dipendenza reale dall’Ilva. Come imprenditore non rischiavo di essere inghiottito dal buco nero. Come persona non mi sentivo azzerato da quello che stava succedendo. Un mese prima degli arresti e del sequestro dell’impianto, mi ero insediato alla presidenza degli industriali tarantini dicendo “parleremo di tutto, non parleremo di Ilva”. Io stesso mi ero messo in proprio, tanti anni prima, perché la società di cui ero dirigente aveva scelto di non perseguire alcuna diversificazione rispetto alle commesse dell’Italsider».

Oltre a questo elemento personale, c’è – in questi cinque anni – l’appartenenza al sistema della rappresentanza: «Essere parte di una realtà articolata e solida come Confindustria è stato indispensabile per muoversi bene, senza rischiare di affogare. Potersi appoggiare, per gli aspetti tecnici e per il rapporto con la politica nazionale, a Viale dell’Astronomia e potere raggiungere in pochi minuti al telefono, sempre e comunque, i suoi vertici ha rappresentato qualcosa di importante»

Nell’estate di cinque anni fa, scattano le manette per Emilio Riva, suo figlio Nicola, il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e altri cinque dirigenti. Gli impianti dell’area a caldo sono posti sotto sequestro. «Se il fondatore è stato arrestato, i magistrati avranno prove inoppugnabili, mi dissi. Nelle prime ore non si capiva niente. Poi, però, pensai all’impianto siderurgico. E mi ricordai che, quando l’Ilva era l’Italsider, l’area a caldo era in condizioni peggiori. Con la privatizzazione le macchine di colata, le caricatrici e le sfornatrici erano tenute meglio e avevano un impatto ambientale meno duro. A me non interessa sapere se i Riva abbiano migliorato le condizioni ambientali dello stabilimento per avidità di guadagno, per senso civico o per entrambe le cose. Però, è stato così».

Il rapporto fra la verità storica e la verità giudiziaria assume, in Italia, un profilo spinoso e cruento. Di sicuro, nella ricostruzione storica esiste una doppia questione. La prima questione è la sedimentazione di lungo periodo, che a Taranto vede l’inquinamento industriale come il risultato di almeno due fasi: prima l’arsenale militare e poi la siderurgia. La seconda questione è che cosa fosse l’acciaieria ai tempi dell’Italsider e di come i Riva abbiamo gestito concretamente la privatizzazione. «Dobbiamo dircelo: la fabbrica e la città hanno sempre avuto un legame ambiguo. Alcuni politici e alcuni sindacalisti contavano non poco nel determinare le assunzioni dei dipendenti e nell’assegnazione delle commesse a questo o a quell’imprenditore. Quella opacità e quella collusione formavano zone d’ombra che rendevano pessima la gestione dell’azienda pubblica», riflette Cesareo, mentre beve un bicchiere di rosato di Negramaro.

Da frequentatore di Taranto arrivato da Milano, mi ha sempre colpito il caso estremo dell’osmosi fra l’acciaieria e la città rappresentato dalla ditta di rottamazione che negli anni Ottanta aveva, dentro l’Ilva, il capo mafioso Antonio Modeo, detto il Messicano.

Dice Cesareo: «I Riva hanno rotto questo meccanismo. E hanno fatto bene. Hanno ottenuto una fabbrica ben funzionante nell’organizzazione interna e nei rapporti puramente economici con la città. Questo valeva con i fornitori, con cui sono sempre stati molto corretti. Da noi, circolava il detto: “Meglio avere un credito con i Riva che un assegno circolare”. Soltanto che loro si sono asserragliati nella fabbrica. Hanno deciso di non avere nessun legame con la città che non fosse, appunto, puramente economico».

Sono gli anni in cui Taranto è divisa in tre parti. Una parte è silenziosa e disattenta. Una parte apprezza l’efficienza industriale dell’Ilva e il lavoro dato senza sperperi di denaro pubblico. Una parte cova verso la famiglia lombarda risentimento, se non odio. Ogni giudizio e ogni valutazione, positive o negative che siano verso l’Ilva e i suoi padroni, vengono comunque filtrati dalla crescita della coscienza ecologica, impostasi in particolare negli anni Novanta della privatizzazione dell’Ilva.

«Nel 2011, l’anno prima che qui venisse giù tutto – ricorda Cesareo – incontrai, a un’assemblea di Confindustria Taranto, Emilio Riva. Aveva carisma. Incuteva rispetto. Era appena morto Pietro Ferrero, il figlio di Michele, il fondatore della Ferrero. Mi avvicinai a lui e gli chiesi: “Ingegnere, scusi, ma come mai quando ad Alba muore Pietro Ferrero migliaia di persone vanno al suo funerale per esprimere riconoscenza e amore, mentre qui a Taranto sui muri scrivono “Riva boia?”. Lui mi guardò e disse: “Noi siamo buoni a fare acciaio””».

A mettere in difficoltà Cesareo è la dialettica fra i magistrati e i politici. «Ho sempre pensato, da semplice cittadino, che il parlamento emanasse le leggi e che la magistratura le applicasse. Sembrava che, ogni volta che una norma non andasse bene ai magistrati, questi facessero ricorso». In un ambiente piccolo come Taranto, tutti si conoscono. «L’allora procuratore Franco Sebastio? Sì, lo conosco. Il giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco? No, l’ho vista solo una volta, fra il pubblico, alla presentazione di un libro di Marco Travaglio».

Cesareo ha scelto, in questi cinque anni, di ridimensionare la sua vita sociale. «Quando andavo nei salotti e alle cene degli amici, sentivo dire cose inaccettabili. Per alcuni, l’Ilva andava chiusa e gli operai andavano messi a realizzare le bonifiche ambientali. Altri facevano proprie le tesi della decrescita felice e immaginavano una nuova Taranto senza più Ilva e con una popolazione dimezzata, impegnata a fare tutto tranne che produzione industriale. Ho assistito alla saldatura fra le posizioni della borghesia tarantina e gli ambientalisti radicali». In questo, emerge il nocciolo duro di cultura anti industriale che, in Italia, è presente nonostante la nostra sia la seconda manifattura europea e che, a Taranto, assume una cifra ottocentesca, risalente al tempo in cui non esisteva ancora nemmeno l’Arsenale della Marina. «Anche se, per me, industria e lavoro vanno conciliate con l’ambiente e la salute al massimo livello consentito dalle tecnologie», afferma mentre sembra pensare ad Antonella, la figlia oggi adolescente che quattro anni fa ha avuto un problema di salute, per fortuna curato e senza conseguenze, e al suo socio ed amico Tommaso Carone, mancato per un tumore lo scorso aprile.

Quando arriviamo al caffè e ai dolci – cioccolata con semi di cacao, praline con cuore di amarena e amaretti fatti di pasta di mandorle – il pensiero si concentra sulla preoccupazione per il presente e sulla speranza per il futuro. «Penso che Arcelor Mittal diventerà proprietaria dell’Ilva. Nonostante lo scontro politico e istituzionale fra il Governo , la Regione Puglia e il Comune di Taranto».

Giovedì sono iniziati i lavori di copertura dei parchi minerali, da cui si alza la polvere nera e grigia che - nei giorni di vento - ricopre il rione Tamburi. L’Ilva sembra in una bolla, in attesa che il 6 marzo – due giorni dopo le elezioni politiche nazionali – il Tar di Lecce si pronunci sulla competenza sua o di quello del Lazio in merito all’impugnazione da parte del Comune di Taranto e della Regione Puglia del piano ambientale.

Dice Cesareo: «Non è risolta la questione dei crediti delle imprese dell’indotto. Sono 150 milioni di euro di vecchi crediti, antecedenti all’amministrazione straordinaria, e 45 milioni di nuovi crediti, post amministrazione straordinaria. Questi ultimi erano, a dicembre, pari a 60 milioni di euro: dopo Natale, il ministro Calenda ha spinto i commissari a pagare 30 milioni. A gennaio, l’indotto ha accumulato altri 15 milioni di euro di crediti. Certo, l’Ilva ha un enorme affanno nella sua finanza di impresa. Finché Arcelor Mittal non prenderà pieno possesso dell’azienda, non sarà possibile porvi rimedio».

Il collegamento fra presente e futuro è rappresentato da questi soldi. «Mi piacerebbe – racconta Cesareo – che queste somme, se mai fossero in toto saldate, venissero destinate da tutti noi, piccoli e medi imprenditori, al finanziamento delle filiere del turismo e del tessile, del vino e dell’alimentare che, tutti insieme, stiamo formando e irrobustendo».

La diversificazione della specializzazione produttiva. La fine dalla monocultura della grande impresa della manifattura pesante. Le spiagge di Campomarino, che sanno già di Salento. Gli abiti confezionati a Martinafranca, a trenta chilometri da qui. Questi vini sulla nostra tavola. A Taranto, il parto della metamorfosi italiana – la sua uscita dal Novecento – ha avuto come levatrice violenta il caso Ilva.

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