ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùIn punta di diritto

Il declino della legge e l’ascesa della giurisdizione

Si registra uno squilibrio nei rapporti tra fonte legislativa e applicazione giurisprudenziale

di Pier Luigi Portaluri

(Livinskiy - stock.adobe.com)

3' di lettura

Si entra in una qualunque aula di giustizia e la frase è lì ad attenderci, con l’immancabile bilancia. Dovrebbe rassicurarci, la legge: nessuna discriminazione dovrebbe esser perpetrata mai, poiché sotto il suo impero siamo tutti eguali.

Fu una delle più gloriose conquiste della civiltà giuridica europea, intorno al XIX secolo: ogni individuo sarebbe stato soggetto alle stesse norme e – se necessario – avrebbe potuto adire gli stessi giudici senza subire odiose distinzioni di ceto, censo, etc.

Loading...

La legge, quindi: fu questo lo strumento utilizzato per prefiggersi un traguardo così ambizioso. Lo Stato riservò a sé stesso la produzione di tutto il diritto, confinando gli altri poteri – il giudiziario, anzi tutto – in un ruolo semplicemente applicativo delle norme emanate dalle assemblee legislative.

Si afferma in questo ambiente di pensiero politico la celebre immagine montesquiana del giudice come «potere neutro», «bocca della legge» che deve solo applicare la norma al caso concreto, senza nessun apporto valutativo personale.

Un compianto maestro, Paolo Grossi, censurò questo modello, appellandolo con una formula ben giocata: «assolutismo giuridico», proprio per stigmatizzare il monopolio delle fonti che il potere statuale aveva autoritariamente acquisito, sottraendo alla società civile il ruolo naturale di forgiare – nelle dinamiche fattuali della vita di relazione – un diritto che non scendeva dall’alto, ma scaturiva dalle esigenze concrete della comunità.

Critiche assistite da non poche buone ragioni, se il sistema si fosse realmente affermato in questa sua declinazione pura, estrema: il che, però, non sembra essere accaduto. È arduo anche solo ipotizzare che in un qualunque momento della nostra storia lo spettro intero dei rapporti umani sia stato regolato soltanto dalla legge, senza che nessuno spazio residuasse per altre fonti, a partire proprio da quella di provenienza giurisdizionale.

Come che sia, oggi la questione si pone in termini diversi. Forse opposti. Si dovrebbe infatti discutere di assolutismo non del potere legislativo, ma di quello giudiziario. All’immagine tradizionale – recepita anche dalla nostra Costituzione – del giudice soggetto (solo) alla legge si va sostituendo quella di una competizione continua e paritaria: in cui, anzi, cedevole si mostra il diritto legislativo nei confronti del diritto giurisprudenziale, che si afferma ignorando le normazioni provenienti dagli organi rappresentativi democraticamente eletti.

Ecco perché nel suo nuovo e ponderoso lavoro, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo (Editoriale Scientifica, pagg. 552, € 50) Fabio Saitta richiama già nel titolo quel filone di studî che analizza congiuntamente gli spazi di libertà concessi al musicista nell’eseguire una partitura e al giudice nell’applicare una norma.

Ma la questione è più radicale, ci dice l’autore, poiché il potere giurisdizionale prescinde ormai dalle indicazioni – pur se vaghe – del pentagramma giuridico: «il diritto vivente, prodotto dalla giurisprudenza, sembra aver espropriato quello vigente, prodotto dal legislatore». Il quale a sua volta, sebbene schmittianamente motorizzato, vede inesorabilmente diradarsi la sua rilevanza nelle sedi contenziose, sino a ridursi a una consistenza sporadica e puntiforme: «hier und da», qua e là, come teorizzava sul finire dell’Ottocento il grande giuspubblicista tedesco Otto Mayer.

Di contro, il diritto detto dal giudice “comune” (anche non costituzionale, cioè) par ribadire progressivamente la sua derivazione da un potere titolare di una propria immediata legittimazione nella dialettica democratica e rappresentativa.

Ne discende uno squilibrio nei rapporti fra fonte legislativa e applicazione giurisprudenziale, che Saitta analizza poi con giusta acribìa in relazione alle dinamiche del processo amministrativo, evidenziando l’ampia discrezionalità gestionale e decisoria di cui sono detentori i Tar e il Consiglio di Stato.

Nel volume non vi sono proposte rimediali specifiche, al di fuori di una diffusa e insistita ottatività verso l’autocontrollo del giudice. Né oggi ve ne possono essere.

Se è vero che ogni ciclo ha una sua fine, ciò che non s’intravede ancora sono i lineamenti di quell’assetto di poteri che segnerà l’Anfang, il nuovo inizio.

Ordinario di Diritto amministrativo all’Università del Salento

Riproduzione riservata ©

loading...

Loading...

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti