Il decreto PNRR segna una svolta nella politica di coesione europea
La resa dei conti tra politica europea di coesione e Pnrr è cominciata. Il decreto legislativo targato Pnrr appena presentato sancisce con un linguaggio freddo e tranchant l'abolizione della Agenzia della coesione territoriale, e predispone il passaggio delle funzioni e del personale a Palazzo Chigi.
di Andrea Filippetti*
4' di lettura
La resa dei conti tra politica europea di coesione e Pnrr è cominciata. Il decreto legislativo targato Pnrr appena presentato sancisce con un linguaggio freddo e tranchant l'abolizione della Agenzia della coesione territoriale, e predispone il passaggio delle funzioni e del personale a Palazzo Chigi. Tale passaggio, che può apparire un tecnicismo per addetti ai lavori, in realtà ha una importanza funzionale e simbolica di non poco conto. Il decreto motiva l'operazione con la necessità di garantire “un più efficace perseguimento delle finalità di cui all'art. 119 quinto comma”. A sua volta il comma in questione recita: “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali […] lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”. Nella sostanza si prescrive allo Stato di operare in modo differenziato sul territorio al fine di ridurre le disparità territoriali, tra cui lo storico divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno. Dall'intervento straordinario nel Mezzogiorno avviato negli anni '50 alla politica europea di coesione, la logica della politica industriale si è ribaltata. Nel primo caso gli interventi erano calati dall'alto secondo un tipico approccio top-down sotto forma di realizzazione di infrastrutture e investimenti in insediamenti produttivi nei settori allora strategici della manifattura: siderurgico, petrolchimico, trasporti. Agli inizi degli anni '90, con la fine dell'intervento straordinario del Mezzogiorno e la liquidazione della Cassa del Mezzogiorno, il testimone dell'intervento pubblico per lo sviluppo delle regioni del sud passa prevalentemente ai fondi strutturali provenienti dalla politica europea di coesione. Quest'ultima aveva ampliato la sua importanza e il suo budget nell'ambito del bilancio comunitario. L'obiettivo di ridurre le disparità tra le regioni (e non tra paesi membri!) che rischiavano di essere esacerbate dalle asimmetrie create dal mercato comune, diventa prioritario e dominante nell'ambito dell'insieme delle politiche comunitarie, compresa quella identitaria rappresentata dalla politica agricola comunitaria. L'Unione sposa la filosofia dell'Europa delle Regioni (concepita anche grazie al Manifesto di Ventotene) e assegna loro un ruolo di protagoniste nelle politiche di sviluppo locale attraverso la programmazione e la spesa dei fondi strutturali. In Italia, la maggior parte delle risorse vengono indirizzate verso le regioni del Mezzogiorno. La transizione dalla politica industriale nazionale alle politiche di sviluppo finanziate dalla coesione europea segna anche il passaggio da una logica di programmazione dall'alto a una di politiche basate sui territori (place-based policies): sono i territori stessi, e le regioni in particolare, ad assumersi la responsabilità di progettare e indirizzare le risorse tese a realizzare un percorso di sviluppo specifico proprio della regione e coerente con la sua vocazione industriale. Questo avviene in concomitanza con la stagione di riforme che introduce l'elezione diretta delle amministrazioni regionali e incrementa l'autonomia regionale, dapprima in campo amministrativo negli anni '90, e successivamente in campo legislativo con la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Con l'irrompere della pandemia il governo precedente decide di intraprendere la strada della centralizzazione del piano, i cui interventi si sovrappongono a quelli finanziati dai fondi strutturali europei. La riduzione dei divari territoriali è infatti uno degli obiettivi del Pnrr, che mira a “evitare che dalla crisi in corso emergano nuove diseguaglianze e ad affrontare i profondi divari già in essere prima della pandemia”. Complice anche la necessità di presentare a farsi approvare dalla Commissione Europea il piano in tempi brevi, la progettazione del piano, la sua gestione e il monitoraggio sono accentrati nelle mani della Presidenza del Consiglio e nel Ministero dell'Economia e Finanza. Il riaccentramento delle politiche pubbliche si inserisce in un contesto più ampio influenzato dal riacuirsi delle tensioni geopolitiche tra blocchi regionali – Nord America, Europa e Cina – che ha da tempo rilanciato la tanto vituperata politica industriale quale strumento indispensabile per raggiungere l'autonomia strategica in alcune tecnologie strategiche (quanto siamo lontani da quando si affermava che la migliore politica industriale è quella che non si fa). Il Pnrr, con la sua programmazione centralizzata anche degli interventi di sviluppo locale ha sin da subito evidenziato una contrapposizione alla logica della politica di coesione. Con il decreto Pnrr si sancisce una prima vittoria della logica centralista rispetto a quella decentrata della coesione. Il nuovo sistema di monitoraggio del Pnrr si estenderà infatti a tutti i finanziamenti europei, di cui i fondi strutturali della politica di coesione costituiscono la parte principale. La scommessa è che la gestione accentrata sarà più efficace di quella decentrata, e saranno i risultati del Pnrr ad avere l'ultima parola. Nel mentre, un aspetto estremamente positivo merita di essere enfatizzato. Il processo di riorganizzazione riconduce l'efficacia della politica alla questione amministrativa. Rispetto alla bulimia riformista degli ultimi anni dove si cercava rimedio nelle grandi riforme istituzionali, il merito del dibattito attuale è quello di aver centrato il nodo del problema dello sviluppo italiano, ossia la questione amministrativa, che ha ostacolato la concreta attuazione delle politiche pubbliche in qualsiasi assetto istituzionale.
* (CNR-Issirfa)
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