Il diario e l’importanza del dialogo con sé stessi
Queste prose domenicali si compongono quasi in un singolare diario
di Natalino Irti
3' di lettura
Queste prose domenicali si compongono quasi in un singolare diario: spunti da letture, rimandi della memoria, impazienze di carattere, osservazioni “dal vero” su eventi e figure del nostro tempo. Inconsueto, poiché il diario evoca un quotidiano confessarsi, un intimo resoconto con sé stessi, un vespertino raccogliersi nella pagina bianca.
Ben può replicarsi che il diario, a dispetto dell’étimo (dal latino dies), è ormai larga e generosa categoria, in cui alloggia una varietà di scritture, unite soltanto dalla cadenza periodica, da una sorta di convenzione che l’autore stipula con il tempo. Codesto è davvero fra i segni distintivi, che suscita un vincolo per l’autore e un’attesa nei lettori. Quando, s’intende, il diario sia dato alle stampe, e perciò perda la sua originaria intimità e riservatezza.
Ci sono diarî chiusi nel cassetto, o celati al fondo polveroso di un armadio, e destinati a restare così, orma segreta di un passaggio per le vie del mondo. E diarî, invece, che vengono a stampa durante la vita; allora sono piuttosto pagine narrative di fatti o descrittive di figure, e ne è splendido esempio il Journal dei de Goncourt. Non se ne saprebbe qui esaltare la tenace continuità (dal 1851 al 1896), il concorde sentire e giudicare dei fratelli Jules e Edmond, l’inquieto e nervoso sopravvivere del secondo dopo il 1870 e fino alla pagina estrema.
Ma è opera che sta a sé, quadro visivo di un’epoca, dove si racconta assai più degli altri che degli umbratili autori.
Quali che siano tipi e modi, il diario è sempre un'oggettivazione della coscienza, un raccontarsi quasi dal di fuori, un proiettarsi su uno schermo e vedersi come spettatori di sé stessi. L’oggettività narrativa o confessoria ha la sovrana virtù di trarci fuori dai grumi sentimentali e dagli intreccî quotidiani; sicché l'intima sofferenza del ripassare il tempo, le “morte stagioni”, trova compenso in un rasserenarsi dello spirito e in un conscio tacere di affanni e dolori.
Ardua e faticosa da conquistare è l’oggettività, e non soltanto sulle pagine di diario, ma pure in scritture di pensiero e di ricerca scientifica. Sempre ci assalgono i turbamenti del “piccolo io”, gli attriti psicologici, il fastidiante agitarsi dell’animo, da cui si levano rifiuti e settarismi, odî teologici e urti di scuole, e come un indistinto rimescolio di sensi.
I diarî, i “mémoires”, i giornali di bordo, ci aiutano nel liberarci da questa interiore oscurità, nel recar luce di ragione entro la buia caverna. La pagina bianca ci attende nella sua capacità di salvezza, in un sobrio offrirsi alla nostra pena o al caos rissoso dei sentimenti. Diveniamo spettatori della nostra vita, scoprendone cadute e vuoti, debolezze e tratti di energia. E tutto si deve alla parola redentrice nel suo spasimo di oggettività: non nel renderci più poveri, e immiseriti e perduti nel deserto, ma rivelandoci a noi stessi, ciascuno con il segreto del proprio destino.
Era consuetudine di donare, al compimento della maggiore età, ornati quaderni di diario, pagine bianche da riempire nel corso degli anni. Delicata e avveduta consuetudine, poiché sospingeva verso il colloquio interiore, non aver paura di star soli e di parlare con se stessi, sollevarsi, d’alcun poco, verso la serenante oggettività. Ma oggi è caduta quella consuetudine, forse schernita per costume borghese o leziosità da convitto femminile, e anche avanza, sinuosa e incurabile, la paura dello star soli; e così il naufragio nella pubblicità mediatica e nel conformismo appare come l’unico e gratuito salvagente.
Il diario riconduce a sé stessi, rende consapevoli del rapporto con il tempo, dello svolgersi da un inizio verso l’inesorabile compimento, di questo farsi uomini, capaci di trascendere la muta naturalità, e di costruire, giorno dopo giorno, il loro mondo.
È velata questa prosa da un’ombra di tristezza, poiché dubbî linguistici e lacune letterarie non possono più sciogliersi nella fine e generosa parola di Luca Serianni, strappatoci, nel destino comune al grande filologo Giorgio Pasq
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