Si possono rivelare i nomi dei contagiati?
Si può rivelare l’identità delle persone contagiate? Ecco che cosa prevede la normativa sui dati personali e come comportarsi
di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani
4' di lettura
I tempi di coronavirus sono tempi difficili per la protezione dei dati personali. Le esigenze di sanità e sicurezza tendono a travolgere gli argini dei diritti individuali e a sacrificare ogni libertà per un bene superiore.
Così, si stanno diffondendo forme di controllo della salute dei singoli e di trattamento dei dati fuori da ogni regola e, sempre al fine di limitare il contagio, si alzano voci che reclamano la pubblicazione dei nomi delle persone infette, degli “untori”.
È evidente che un’emergenza può condurre a una limitazione di diritti, ce ne rendiamo conto quotidianamente in queste settimane. Ma non può portare a una cancellazione, a una violazione sistematica.
Dunque, quali informazioni sanitarie possono essere trattate? Da chi e per quali scopi? Quali garanzie restano alla riservatezza di chi è anche solo sospettato di aver contratto il virus? Sono domande che in molti si stanno ponendo e che non sempre trovano risposte univoche o convincenti. Il Garante si è già espresso su un paio di punti: ha dato una sorta di “via libera” per la comunicazione dei dati alla (e dalla) protezione civile per la realizzazione delle attività tipiche del servizio.
Ancora: è di pochi giorni fa un intervento dell’Autorità – di cui si è occupato Il Sole 24 Ore – che ammonisce privati e pubblica amministrazione a non effettuare controlli generalizzati sulla salute di utenti e lavoratori, non previsti dalla legge o non disposti dagli organi istituzionali, e di attenersi invece scrupolosamente alle indicazioni fornite dal Ministero della salute e dalle autorità competenti.
Ma vi è soprattutto una domanda che serpeggia da giorni, forse da settimane, in tutte le redazioni di giornali e telegiornali e che dovrebbero porsi anche tutti coloro – sono ormai milioni – che utilizzano social network “aperti”: si può rivelare l’identità delle persone contagiate e comunque diffondere informazioni che le rendano riconoscibili?
La risposta ci pare tendenzialmente negativa. Partiamo dalla normativa: a scopi informativi, possono essere diffusi tutti i dati personali veri ed essenziali per comprendere una notizia di interesse pubblico, anche senza il consenso dell’interessato. Una disposizione di dettaglio, poi, però, vieta la divulgazione di dati analitici di interesse strettamente clinico, salvo che la persona non rivesta una posizione di particolare rilevanza politica o sociale e, comunque, anche un’eventuale diffusione deve rispettare la dignità della persona. In sostanza, è divulgabile il generico stato di malattia di una persona, nonché la sua presenza in ospedale qualora siano di interesse pubblico, ma non lo sono i particolari riguardo alle patologie contratte. La casistica ci dice che si può accennare pure a quest’ultimo profilo se il tema è strettamente legato al fatto di cronaca, altrimenti bisogna lasciarlo coperto dal riserbo.
Un paio di casi, già decisi dal Garante in passato, possono offrire qualche spunto: nel 2002 l’Autorità ha vietato il trattamento dei dati di una persona affetta dalla malattia di Creutzfeld – Jacob (il cosiddetto “morbo della mucca pazza”) da parte dei mezzi di informazione, in quanto la pubblicazione di una notizia di interesse generale, come la presenza nello Stato di contagiati dalla malattia in questione, non rende necessario alcun riferimento specifico all’interessato, sicché riferire particolari che rendano il soggetto riconoscibile, nonché notizie sui congiunti dell’interessato e altre persone estranee è contrario al principio di essenzialità dell’informazione.
Ancora, nel 1999, sempre il Garante ha sottolineato che anche per finalità di “salute pubblica” la diffusione di dati relativi alla salute di una prostituta affetta da Aids deve essere effettuata con tutte le cautele necessarie, affinché vengano allertate le persone che hanno avuto contatti con la medesima, senza per questo che essa sia identificabile da tutti.
Da questi due “precedenti” si comprende subito come nei casi complessi, come è quello con cui abbiamo a che fare, la soluzione non è mai né semplice né una sola. Qui si tratta di confrontare il bene della salute pubblica, messa in pericolo da un’epidemia, che sarebbe contenuta da informazioni precise sui contagi conclamati, ma anche su quelli possibili, con il diritto alla riservatezza delle persone malate, gravemente danneggiato da una (sovra)esposizione sui mezzi di informazione, soprattutto in periodi come questo nei quali assistiamo a fenomeni di isteria collettiva che rischiano di sfociare in condotte ghettizzanti o peggio violente.
Una risposta potrebbe essere quella di consentire la diffusione di dati che consentano di identificare chi si è ammalato, solo se per il suo ruolo pubblico o professionale ha contatti con molte persone, senza però rendere nota esplicitamente l’identità anagrafica. Da un lato, l’identificabilità consentirebbe alla cerchia di chi è venuto in contatto con il contagiato di assumere adeguate precauzioni e condotte volte a proteggere sé e gli altri in questo periodo di emergenza. Dall’altro, la mancata pubblicazione della identità precisa limita la curiosità morbosa e la discriminazione e soprattutto evita che il ricordo della malattia sia eternato, attraverso quella miniera di dati inobliabili che è la rete.
Ma confessiamo candidamente di non sapere se questa è davvero la risposta più corretta, in una situazione così difficile e nell’intreccio di tanti interessi confliggenti. Quando ce lo chiediamo, ci sentiamo come Nanni Moretti che in Aprile così malinconicamente parlava tra sé e sé: «Comunque io - con questo documentario - io voglio dire quello che penso […] E come si fa in un documentario? E soprattutto: cosa penso?»
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